I ricercatori del Dipartimento di Scienze degli Alimenti dell’Università di Udine hanno testato per due anni le coltivazioni di quattro varietà di canapa per metterne a confronto la produzione da seme e la conseguente estrazione di olio ad uso alimentare e cosmetico. Le varietà testate sono state Felina, Chamaeleon, Uso 31 e Finola. Dai risultati è stato evidenziato come la maggiore resa in olio per ettaro si è ottenuta dalla cultivar Felina (ca. 890 chilogrammi di semi per ettaro e quindi circa 265 chilogrammi di olio), seguita da Chamaeleon, Uso31 e Finola.
Come ci ha raccontato la professoressa Carla Da Porto, responsabile scientifico dello studio, questo prodotto viene suggerito come sostituto del più comune integratore alimentare utilizzato per gli acidi grassi essenziali, acido α-linoleico (appartenente al gruppo degli omega 3) e acido linoleico (appartenente al gruppo degli omega 6) e cioè l’olio di pesce. Oltre ad essere di origine vegetale e quindi non soggetto all’inquinamento di mari e oceani con mercurio, diossina e componenti tossici che vengono assimilati dai pesci stessi, la professoressa, durante una chiacchierata fatta per saperne di più sullo studio, ha sottolineato il valore nutrizionale di questo alimento: il perfetto rapporto degli acidi grassi Omega-6 e Omega-3 (3:1 come consigliato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità), oltre all’alto valore di tocoferoli (potenti antiossidanti) e all’elevato rapporto acidi grassi polinsaturi e saturi (>10) che è ideale per contrastare l’insorgenza di patologie infiammatorie e coronariche. In più, l’olio contiene l’acido γ-linolenico, che svolge un ruolo importante nella fisiologia e fisiopatologia della pelle. Vale la pena perseguire la nascita di una filiera produttiva italiana che secondo la professoressa dovrebbe basarsi sull’eccellenza del prodotto e le più avanzate tecnologie di estrazione “verde” dell’olio dal seme. Ricordiamo che un assaggio di oli di canapa prodotti in Italia (sia da varietà straniere sia prodotto col seme della Carmagnola), è stato fatto in occasione del convegno organizzato da Toscanapa.
Come mai non sono state utilizzate varietà italiane?
Nonostante il fatto che fino agli anni ’30 fossimo il secondo produttore al mondo per quantità di canapa da fibra dopo la Russia ed il primo per qualità dei prodotti a livello mondiale, dopo il 1970 si è assistito ad una progressiva scomparsa della canapicoltura italiana. Fra le principali cause sono da annoverare l’applicazione delle leggi che disciplinano gli stupefacenti, tra cui il dpr n. 309 del 9-10-1990; l’assenza, fino al 2000 di utilizzatori riconosciuti e inclusi nell’elenco dei primi trasformatori della materia prima e infine, la mancanza di seme certificato di cultivar di canapa adatte al nostro ambiente di coltivazione. In Italia, solo nel 1998, grazie al contributo UE, si è ripreso a coltivare la canapa da fibra. Però, in altri Paesi in cui l’interesse per la canapa non è mai venuto meno, il miglioramento genetico è continuato in tutti questi anni e ha fatto sì che le cultivar di nuova introduzione fossero di tipo monoico, ibridi tra piante dioiche con monoiche e unisessuate. Sono di questo tipo le cultivar francesi, a loro volta migliorate anche dal punto di vista del contenuto di tetraidrocannabinolo (THC), la sostanza con attività psicotropa, inferiore allo 0,2%.
Dove sono state coltivate le piante?
Le coltivazioni seguono degli studi che abbiamo già effettuato negli anni scorsi e sono state fatte in una zona montana del Friuli Venezia Giulia dove veniva effettuata la coltivazione tradizionale di canapa anche in passato. La canapa è una pianta molto rustica che ben si adatta a diverse condizioni climatiche e del suolo, fatto questo molto importante per quanto riguarda la possibilità di recuperare con questa coltivazione molti terreni incolti e/o abbandonati. Le coltivazioni sperimentali effettuate anche in pianura hanno avuto un buon riscontro, visto che molti agricoltori ne stanno attualmente mettendo in campo aree abbastanza estese.
Come si può rendere la coltivazione remunerativa per i produttori?
La maggior parte dell’olio di canapa acquistabile oggi in Italia viene importato e venduto a prezzi abbastanza alti. A mio avviso si potrebbe pensare ad una produzione italiana basata non solo sulla qualità della materia prima, ma anche e soprattutto sulla eco-compatibilità e sostenibilità del processo di trasformazione. Si potrebbe così dare un notevole input al settore aumentando il valore aggiunto del prodotto.
In che modo?
Il contenuto in olio dei semi di canapa si aggira intorno al 30% (p/p), resa attualmente ottenibile solo con l’uso di solventi organici. L’estrazione dell’olio dai semi è eseguita per pressione a freddo, vale a dire per pressatura meccanica a temperatura di 60-70 ° C, che permette un recupero di olio intorno al 16-20% , segue poi l’estrazione con solventi organici del pannello residuo in cui c’è ancora dal 10 al 14% di olio. Evidentemente il problema dell’estrazione non è tanto quello della pressatura, che comunque sottopone il prodotto ad un trattamento termico, quanto quello dell’estrazione con solventi organici (VOC) che sono tossici e cancerogeni e che la stessa Comunità Europea, riconoscendone i rischi per la salute, sta mettendo al bando.
Quale potrebbe essere la soluzione?
Noi per l’estrazione dell’olio abbiamo utilizzato, su impianto pilota, una tecnologia “verde” qual è l’estrazione con fluidi supercritici (SFE). Abbiamo utilizzato l’anidride carbonica perché la CO2 è priva di tossicità, inerte, non infiammabile, poco costosa, riciclabile e quindi priva di impatto sull’ambiente. L’estrazione con CO2 supercritica è una tecnologia moderna di estrazione che non lascia residui di sostanze solventi. Dopo l’estrazione la pressione di esercizio viene abbassata e la CO2 perde così la sua forza solvente rilasciando le sostanze solute (es. olio) allo stato puro e in forma concentrata. Per questi motivi anche la Food and Drug Administration – l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici – ha conferito a questo procedimento l’attributo GRAS (GRAS = generelly recognized as safe/ generalmente riconosciuto come innocuo). Le sostanze naturali, inoltre, sono spesso poco stabili a temperature elevate e richiedono quindi di essere mantenute e trattate a temperature vicine a quella ambiente: la CO2 ha una temperatura critica di 31 °C, che la rende particolarmente adatta come solvente per le sostanze di origine biologica. Gli estratti con Sc-CO2 sono microbiologicamente stabili, non necessitano di conservazione e sono per natura praticamente sterili. A differenza dei procedimenti convenzionali, la selettività dell’estrazione è mirata. Il metodo non comporta stress termico e, soprattutto, non richiede l’impiego di solventi organici, tossici per la salute umana e dannosi per l’ambiente. E’ evidente che l’adozione di questa tecnica di estrazione costituirebbe un enorme progresso tecnologico che, associato ed elevatissima qualità di prodotto, ne aumenterebbe la resa economica.
Come mai non viene introdotto?
A mio avviso, una delle maggiori problematiche relative all’adozione di questa tecnologia va ricercata nei forti interessi economici che ci sono nello smaltimento dei solventi organici, che come è noto, seguono le procedure dei rifiuti tossici speciali.
Cosa si evince nello studio dal punto di vista agro-industriale?
Da un punto di vista della sostenibilità economica della coltivazione della canapa da olio si può affermare come la marginalità netta potenzialmente ottenibile dalle varietà più produttive, fornisce all’imprenditore agricolo una valida alternativa alla monocoltura del mais.
Mario Catania per Canapaindustriale.it