Dietro le sbarre di un carcere, dove non c’è libertà e si fa fatica ad affermare anche i diritti umani basilari, fa capolino una pianta di canapa. Parliamo dell’esempio virtuoso di due aziende che hanno avviato dei progetti di riabilitazione per i detenuti facendo lavorare loro la canapa.
Sia il birrificio di Mattia Guarnera che l’Abap (Associazione Biologi ambientalisti Pugliesi) hanno avviato un progetto che, a partire dalla pianta di canapa, coinvolge i detenuti in attività lavorative che gli consentono di trascorrere qualche ora lontani dalle gabbie che costituiscono il loro mondo e dando loro la possibilità di imparare un mestiere. Mattia Guarnera con il suo birrificio artigianale ci aveva raccontato di aver assunto due detenuti che lavorano per la sua azienda. “Credo sia stato un bel messaggio per il territorio”, aveva spiegato sottolinenando che “l’iniziativa è stata premiata nel corso dell’iniziativa Senigallia Spiagge di velluto, un premio che la città assegna alle aziende virtuose”.
Ma è con il progetto dell’associazione ABAP (Associazione Biologi Ambientalisti Pugliesi) che è stato fatto un passo in avanti con la canapa che è entrerata nel carcere di Taranto per poter essere utilizzata per le future ristrutturazioni del carcere, rendendolo un luogo più salubre e più sostenibile dal punto di vista di bollette e consumi energetici. Ne abbiamo parlato con Marcello Colao, ingegnere dell’associazione che ha curato il progetto.
Com’è nata l’idea?
L’idea era quella di partecipare a questo bando che prevedeva la figura, a livello di recupero sociale, del classico muratore: volevamo arricchire questa figura, visto che non ci sono attualmente persone formate, con l’innovazione sostenibile della canapa in bioedilizia. Al di là di tutte le aree di competenza del cosiddetto operatore in opere murarie è stata l’occasione per poter parlare di ambiente ed ecologia. Abbiamo presentato il progetto e siamo stati gli unici su Taranto ad averlo vinto.
E come si è svolto?
Siamo andati all’interno del carcere insieme all’architetto Livio Ripamonti che lavora con l’azienda svizzera Hemp Eco System, poi c’era Cosimo Piccirillo di Canapa & Co. che si è occupato della parte pratica del laboratorio ed altri partner come studi di ingegneria che hanno dato informazioni standard. Quella sulla canapa è stata la parte principale ed è stato emozionante portare per la prima volta una pianta di canapa all’interno della casa circondariale.
Quanto è durato?
In totale il corso è durato due mesi ed al termine è stato consegnato un attestato dalla Regione. C’è stata la parte di laboratorio con la realizzazione di due muri con termo-intonaco in canapa e calce e abbiamo realizzato anche due demo di cappotto isolante fatto in canapa e calce. Il progetto ha suscitato un grande interesse sia da parte dei detenuti che si sono innamorati di questa nuova tecnologia, sia da parte degli agenti penitenziari e soprattutto della dirigenza del carcere, talmente entusiasta dell’iniziativa da chiederci di portare avanti altri progetti sempre con la canapa.
Ad esempio?
Si sta pensando di scrivere un progetto per la semina e la coltivazione di canapa industriale dentro il carcere di Taranto e speriamo che possa andare tutto bene.
Ma ci sono già dei tempi certi?
Per ora stiamo temporeggiando perché abbiamo appena consegnato un progetto, sempre per istruire operatori che sappiano usare e posare la canapa e calce, però per ragazzi dai 14 ai 18 anni che hanno abbandonato gli studi. E’ un bando regionale e abbiamo consegnato il tutto da poco, ora aspettiamo l’esito, speriamo che venga approvato e vada in porto anche questo.
Quindi è un modo per avvicinare le persone alla bioedilizia insegnando loro un lavoro?
Il risultato del progetto in carcere è stato che 3 detenuti dei 10 che hanno partecipato sono stati assunto con contratto intra-murario per occuparsi della manutenzione del carcere. Abbiamo infatti dimostrato quali siano i vantaggi nell’usare questo tipo di materiali per ciò che riguarda l’abbattimento dei costi e l’isolamento. La dirigenza del carcere è rimasta molto colpita e ora bisognerà trovare i finanziamenti per poter continuare il progetto ed avere la possibilità di parlare di carcere sostenibile e carcere ecologico.
C’è la possibilità che i prossimi interventi al carcere di Taranto siano fatti con canapa e calce?
Sì, i detenuti sono stati formati per poterlo fare e l’idea adesso è quella di continuare per portare in toto la canapa dentro il carcere. In collaborazione con il corso agricoltura vorremo attivare una coltivazione di canapa, anche simbolica, all’interno del carcere, per poi sviluppare 3 progetti per creare prodotti dalla canapa dentro il carcere nei settori tessile, della carta fatta a mano ed alimentare. Il passo successivo sarebbe quello di installare uno spremettero a freddo ed una macina per avere olio di canapa e farina prodotti in carcere. La direzione del carcere ci ha sostenuto in tutto e speriamo di riuscire ad andare avanti.
Che esperienza è stata?
Sono stati tutti contenti, dai docenti agli alunni, con i quali si è creato un rapporto incredibile. Per degli ex-muratori, in carcere da tempo, riprendere in mano gli strumenti del mestiere dopo anni è stata un’emozione incredibile. Ci hanno abbracciato e ringraziato, è stato un piccolo miracolo all’interno di un posto che è un luogo di rigore e sofferenza. C’è una frase pronunciata da un detenuto che ci ha lasciati tutti di stucco e personalmente mi ha fatto commuovere. Mentre stava installando l’intonaco si è fermato per dire: “Questo intonaco profuma di libertà”.
La speranza è che il progetto venga diffuso e replicato in altri carceri; penso che al di là del proprio lavoro ciascuno debba lavorare per il bene comune, altrimenti non si va avanti.
Mario Catania