Il Museo itinerante della Canapa dei gemelli Bernardini compie 20 anni e per l’occasione pubblichiamo un loro scritto che ne ripercorre le tappe e che racconta come sono diventati dei veri e propri custodi di conoscenze, di pensieri, di modi di vivere che altrimenti si sarebbero persi per sempre. Un mondo di cui i gemelli Bernardini continuano a prendersi cura con affetto, oggi che la canapa può tornare a contare nel mondo agroindustriale, così come ieri, quando sembrava solo una pianta da demonizzare.
Il Museo della canapa dei gemelli Bernardini nato nel 1997, oggi Museo itinerante della Canapa, ha come valore assoluto, quello di aver valorizzato una specifica area tematica della variegata cultura e civiltà contadina italiana, la quale proprio a partire dalla seconda metà del secolo scorso, si è dovuta sempre più ricercare in ambito museale piuttosto che nelle campagne; e il merito dei Bernardini è proprio quello di aver ricercato un ambito preciso e specifico di una realtà che un tempo così viva velocemente sembrava cadere nell’oblio. L’alto valore documentale, già dalla inaugurazione è stato riconosciuto dalle autorità presenti oltre che dalla direttrice del museo Pigorini di Roma dott.ssa Silvestrini, inoltre la ripresa, almeno in parte, dei lavori tradizionali legati alla canapa, con uno sguardo al futuro, hanno fatto di Domenico e Settimio Bernardini degni dell’onore di tutti gli appassionati di canapa che grazie a loro hanno riscoperto un universo di conoscenze e saperi rari e preziosi, non solo per la conservazione degli stessi, ma anche per il loro rinnovamento in nuovi usi.
La loro ricerca è stata svolta grazie alle testimonianze raccolte presso chi ancora possedeva il ricordo di certe pratiche, di oggetti, funzionamenti, tradizioni e tutto ciò che poteva essere utile alla ricostruzione di processi fino ad alcuni decenni prima così comuni. A “cannave” (come la chiamavano nei loro racconti) si seminava allo spuntare della primavera, marzo, aprile, e solo dopo la “spavana” la fioritura estiva d’agosto delle piante maschili, le stesse ormai in senescenza, venivano raccolte in fascetti detti “manne” fatte seccare al sole in pieno campo, messe a forma di cono, macerate poi nei fossi per otto dieci giorni e di nuovo asciugate al sole sempre a mo’ di capanna. Si procede poi alla decanapulizzazione, ovvero alla separazione della fibra esterna, il cosiddetto tiglio, dalla parte legnosa interna, il canapulo.
Scelta la fibra migliore si segue con la filatura con il tradizionale fuso, sul quale veniva posta la vertecchia, costituita a volte da una patata o una cipolla. Con il filato si preparava l’ordito con lo specifico strumento, l’orditoio e infine la tessitura grazie al telaio che tutti avevano in casa. Le piante femminili che rimanevano in campo venivano solitamente raccolte all’inizio dell’autunno e i semi conservati nei sacchi così come la frutta secca venivano messi appesi alla trave della cucina ed erano spesso oggetto della golosità dei più piccoli!
La ricostruzione di questi lavori è stata fatta grazie ai racconti delle persone alle quali ci si è rivolti, non più in tenera età, inizialmente mostravano freddezza, ma con le domande che pian piano diventavano chiacchierate, gli intervistati si scioglievano e iniziavano a raccontare con commozione, poiché alla memoria tornavano loro i grandi sacrifici, le grandi fatiche compiute da tutta la famiglia coinvolta in tutte le fasi del ciclo dei lavori intrecciate a tutte le fasi e ai cicli della vita; e nel rammentare i loro volti si illuminavano e intristivano contemporaneamente, qualche pausa, e i racconti riprendevano più vivacemente, pieni di ricordi, dai più felici a quelli più drammatici, ma lieti di portarli a conoscenza per le generazioni future. Grazie a questi racconti si è riusciti a risalire all’ultimo orditore del paese: Pietrocco, detto appunto l’orditore; grazie a lui si hanno avute altre indicazioni di possibili telaiancora disponibili presso altre famiglie, ma purtroppo si è arrivati in molti casi troppo tardi, in quanto molti dei telai in disuso, decisamente ingombranti negli ambienti a disposizione, venivano smontati e dati alle fiamme del camino! Fortunatamente in un caso presso un rigattiere di Amatrice, in un deposito si trovarono i pezzi di due antichi telai databili al ‘700 che Settimio, falegname restauratore di pregio, ha saputo riassemblare e restaurare con perizia e maestria rifinendo nei minimi particolari e rendendoli nuovamente funzionanti.
I ricordi di tutte le persone intervistate hanno lasciato nei gemelli Bernardini una visione immensa delle loro sofferenze descritte dalle espressioni dei loro volti, le pause, seguite da lacrime, che gli correvano lungo le guance scarne, oppure da sorrisi luminosi, che gli riportavano alla mente momenti allegri della loro gioventù: erano vecchie storie, ma piene di grandi sentimenti, che custodivano gelosamente nei loro cuori. Aver lasciato quanto di più caro avevano conservato nei loro cuori e di aver regalato una biblioteca senza inchiostro è stato per i gemelli motivo di orgoglio e di responsabilità riportando fedelmente i loro racconti nel libro “la canapa, le nostre radici” e conservando con cura tutto il materiale audio e video di tutte le persone intervistate.
Fra gli oggetti principali raccolti e recuperati dal museo, vi sono le stoffe, che rappresentano la parte più cospicua della collezione. Dal panno usurato e bucato, ai rotoli di tessuto mai usati, conservati ancora nei bauli e negli armadi, e poi sacchi, pagliericci, e naturalmente il panno del pane, che non mancava mai, in tutte le case, con il panno si mettevano a riposare gli impasti, si ricopripano i pani ed ogni singola pagnotta. Più rari i pagliericci, tessuti in fibra più grossolana, che rappresentavano il materasso di una volta, ovvero un telo con delle asole dove poter riempire e svuotare l’interno di cartocci, gli scarti vegetali del granturco. Ancor più grossolano era il filo per i sacchi per le diverse necessità: dai sacchi del grano, ai sacchi dell’immondizia. Invece per le lenzuola veniva usato il filato di pregio, più finemente lavorato, sempre nei racconti degli intervistati si diceva che dormire su quelle lenzuola era come essere grattato tutta la notte e quando si aveva la febbre in particolar modo erano raccomandate, poiché erano (e rimangono) in grado di asciugare il sudore del corpo e far traspirare l’umidità. Ancor più di pregio, fine e liscio, il filo della biancheria, realizzato con il cuore del mallo, il filato migliore, dalle calze alle camicette, tutta l’intera dote delle spose era realizzato in casa dalle donne, con il filato di canapa. Ancor oggi, nella gran parte d’Italia, molte delle stoffe e dei corredi sono conservati gelosamente. E non è scomparso nemmeno l’uso industriale della produzione di fibra di canapa, come ad esempio: la stoppa, usata dagli idraulici, o la fibra usata anche come calafataggio delle imbarcazioni e delle botti, né è sparito lo spago comune, né le corde, le vele e le gomene, per queste ultime si ricorda la nave scuola A. Vespucci, la quale per statuto deve avere vele e gomene di canapa della cultivar Carmagnola. Per quanto riguarda le corderie italiane, presenti in tutto il territorio, un ricordo particolare va al signor Pietro Montesi artigiano unico di Jesi che con grande passione ha svolto il proprio lavoro, oggi gode la propria pensione non casualmente presso il rione dei cordai! Con diversa commozione invece, si ricordano Caterina Vascelli e Aldo Morelli, che hanno ideato, allestito e curato l’eco-museo della corderia di Carmagnola e che purtroppo ci hanno lasciato nel 2016, portandosi dietro tutta la loro conoscenza ed esperienza, bruciando un’altra pagina di storia.
Un rigraziamento particolare però, va a tutti i visitatori del museo: ragazzi, adulti, anziani, famiglie, scolaresche, ricercatori, giornalisti, singoli curiosi ed appassionati, che sono riusciti a vedere con una prospettiva diversa una realtà che magari hanno conosciuto solo per alcuni aspetti, ma che grazie al museo, nelle persone di Domenico e Settimio, sono riusciti a riconsiderare una cultura, gli usi e i costumi di un tempo del nostro territorio riguardo la canapa.
Domenico e Settimio Bernardini