Girando per la pianura e il primo appennino emiliano, non è raro intravedere tra le fronde di qualche campo incolto delle grandi vasche di pietra di cui si è persa la memoria d’uso. Sono i maceratoi, le vasche interrate che venivano utilizzate per il processo di separazione del tiglio dal canapulo mediante macerazione in acqua. Oggi sono utilizzate come riserva idrica oppure abbandonate, vuote, giganti culle di erbe selvatiche che si riempiono e si svuotano ad ogni stagione. È il segno che hanno lasciato i secoli in cui queste zone vivevano di canapa. L’Emilia «il cuore italiano della canapicoltura» fin dal 1500, come ama ancora ricordare con orgoglio qualche anziano.
La coltura canapicola era così legata al territorio bolognese che mi capita di trovare riferimenti anche nei posti più insoliti, come le opere letterarie cinquecentesche di Giulio Cesare Croce, le tele seicentesche del Guercino e in una delle opere storiche dell’agrotecnica, Economia del Cittadino in villa, di Vincenzo Tanara, il quale nel 1664 scrive: «nella Canepa, conoscesi una sforzata industria de gli Agricoltori Bolognesi, per la quale saranno sempre d’eterna, e universal gloria, perché con immensa fatica, e spesa, si riduce questa pianta ad una esatta, e singolar perfettione». Un’immensa fatica, ecco cos’è stata per secoli la produzione di questa meravigliosa fibra, ed è in genere l’aspetto che ricordano di più i contadini di una certa età, senza i romanticismi rivoluzionari di noi più giovani. Il fatto che le sere d’inverno nelle stalle fossero allietate anche da qualche fumata, non ricompensava di uomini già vecchi a quarant’anni e donne consumate dalla stanchezza – le quali tra l’altro non godevano nemmeno della fumata, prerogativa maschile.
La produzione emiliana si era sviluppata soprattutto sui cordami per la flotta navale veneziana e in seguito si era estesa agli arsenali navali europei, fino ad arrivare a quelli dell’esercito italiano nella Seconda Guerra Mondiale. Parallelamente a questa produzione, furono le stesse famiglie contadine a sviluppare un’altra produzione da far svolgere – nemmeno a dirlo – alle donne di casa: la tessitura della canapa pettinata. Da lì iniziarono a produrre abiti ma anche biancheria da letto molto resistente e addirittura la teleria per vele.
Il ciclo di semina, raccolta e lavorazione era tutto patrimonio delle famiglie rurali che continuarono anche la tessitura della fibra prodotta in proprio, almeno fino agli anni ’50. L’industrializzazione del secondo dopoguerra decretò il ridimensionamento della canapicoltura che iniziò a scomparire nel bolognese come nel resto d’Italia.
Le numerose manipolazioni necessarie per la produzione risultavano così faticose per i contadini, che l’agronomo toscano Cosimo Ridolfi nel 1859 scriveva: «Una popolazione che non fosse assuefatta a codesta fatica, a codesti incomodi non vi si assoggetterebbe di buona voglia e si considererebbe parificata nel lavoro agli schiavi: ma dove queste colture sono abituali da tempo immemorabile, benché siano gravosissime al contadino che vi s’affatica d’intorno, si praticano senza lamento e tornano utilissime al proprietario che riceve il prodotto senza spesa dal suo mezzaiuolo». Ancora nel 1957 il Consorzio Nazionale Produttori Canapa bandiva dei concorsi a premi «per la costruzione di macchine atte alla lavorazione rustica della canapa», senza tuttavia trovare soluzioni valide. Tutto restava letteralmente nelle mani degli agricoltori.
Ennio, un anziano contadino che ha ormai lasciato l’attività ai nipoti, mi racconta di quando era bambino, poco prima della guerra. I suoi genitori, i suoi nonni e bisnonni erano stati tutti coltivatori di canapa. Il ciclo di lavorazione durava tutto l’anno, senza possibilità di far posto ad altre coltivazioni: chi produceva canapa, faceva solo quello e di quello doveva vivere. Si seminava tra la fine di febbraio e la prima metà di marzo, semina a cui partecipava tutta la famiglia, compresi i bambini. Nell’operazione manuale i contadini calibravano con esperienza la quantità di seme da distribuire e la forza di gettata, spargendo uniformemente i semi contenuti in un canestro, il panìr. Il papà e nonno seminatori venivano seguiti da donne e ragazzi che, volgendogli le spalle e camminando all’indietro, coprivano il seme appena gettato. Altri seguivano poi con il rastrello per spianare il terreno, piccole carovane che al gelo percorrevano i campi avanti e indietro. Il tempo di raccolta lo stabilivano con calcoli tra il mistico e il pagano: gli agricoltori bolognesi lo individuavano quando la canapa era stata esposta al trai guaz d’agòst: dopo la terza rugiada del mese di agosto, momento nel quale le piante venivano tagliate a 5 cm da terra con un apposito falcetto. A schiena curva, sotto il sole tutto il giorno, uomini, donne e bambini cominciavano dalle piante esterne del canapaio e arrivavano fino al centro, formando delle spirali che dall’alto erano uno spettacolo unico.
I fasci man mano tagliati erano deposti sul terreno a due a due a formare una croce perché il sole li asciugasse uniformemente. Raggiunta l’essiccazione in pochi giorni, nelle ore più calde della giornata le cime della pianta erano battute ripetutamente sul terreno, per distaccarne foglie e infiorescenze. Gli steli venivano poi ammassati a forma di cono, legati con steli di canapa dalla cima fino alla metà del loro sviluppo. A questo punto del processo lavorativo si selezionavano gli steli secondo la loro lunghezza e grossezza ricavandone fasci. Per questa fase di lavoro i contadini si avvalevano dei tiratori, degli ambulanti che si recavano di famiglia in famiglia per eseguire il lavoro di tiratura. Restavano, vitto e alloggio inclusi, anche per una settimana. Mi racconta Ennio che spesso i tiratori erano scelti più per doti affabulatorie che per capacità, erano infatti l’intrattenimento serale: con il loro mestiere viaggiavano tanto e portavano notizie, storie e indovinelli. Timore sommo delle madri era che le figlie si innamorassero di un tiratore di canapa e fuggissero con lui.
In estate si passava alla macerazione per staccare la fibra, in quelle vasche di pietra ancora visibili. Ma la parte migliore era quella per i bambini dei canapicoltori: le vasche diventavano per tutta l’estate un centro di socialità.Le donne di casa si riposavano mettendo i piedi nell’acqua fresca e raccontavano storie, gli uomini si lavavano lì risparmiando alle mogli il trasporto dell’acqua in casa e i ragazzi ci nuotavano e insegnavano a nuotare ai più piccoli, spesso usando zucche vuote come galleggianti. Poi arrivò la guerra, il padre di Ennio fu richiamato e un’estate nel maceratoio vi misero anche due partigiani, che durante una perquisizione resistettero lì sotto mezz’ora, in mezzo alla canapa in macerazione, respirando a pelo d’acqua tra le fronde, con le sanguisughe che li addentavano.
Ennio mi guarda e scuote la testa: «Voialtri credete che coltivare la canapa sia un bel mestiere… Forse oggi che si fa tutto con i trattori. Una volta dovevi tirar su fascine da 70 chili piene d’acqua, con le zanzare che ti mangiavano vivo. Ai miei tempi, quando siamo passati dalla canapa all’orzo e al grano, sembrava una vacanza, la liberazione. Tornerei solo a fare il bagno da bambino, coi miei fratelli nei maceratoi, eran le nostre piscine, il nostro mare. Io il mare l’ho visto a 28 anni, in viaggio di nozze, prima c’era solo il maceratoio».
Grazia Cacciola
Pubblicato su Dolce Vita n°71 – luglio/agosto 2017