La Cassazione ha stabilito che commercializzare cannabis light può rappresentare un reato.
Dunque ancora una volta la magistratura ha dovuto supplire alle mancanze della politica, che non ha avuto il coraggio di esprimersi per tempo. E il verdetto è arrivato.
“Integrano il reato” previsto dal Testo unico sugli stupefacenti (articolo 73, commi 1 e 4, dpr 309/1990) “le condotte di cessione, di vendita, e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante“. Queste le parole delle sezioni unite che si sono riunite nell’udienza di oggi a porte chiuse.
Ora tutta la partita, e il futuro di un intero settore, si giocherà su che cosa si intende per “efficacia drogante”.
“E’ la solita scappatoia all’italiana: se la canapa non ha un principio attivo drogante, la questione non esiste” ha spiegato l’avvocato Zaina a Dolce Vita sottolineando che: “Ora bisognerà stabilire cosa si intende per principio drogante. Come al solito la montagna ha partorito il topolino, in un’ottica che lascia comunque incertezza. Perché se un commerciante riesce a dimostrare che la sostanza che vende non ha effetto drogante, non c’è niente di illecito”.
Secondo i giudici “foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientrano nell’ambito di applicazione della legge 242 del 2016″, sulla promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa.
Mario Catania