Cannabis light e pronunce dopo la Cassazione: dal non luogo a procedere alla soglia di THC

Canapicoltura //

A pochi giorni dalla lettura delle motivazioni della nota pronuncia delle Sezioni Unite, pare opportuno trarre un bilancio delle prime pronunce di merito che hanno affrontato i profili di liceità relativi alla commercializzazione dei derivati della c.d. canapa sativa L., a valle dei principi sanciti da Cass. 30475/2019.

Come si dirà fra un istante, non si può non notare (ovviamente con favore) come il recente orientamento giurisprudenziale sembra essere assolutamente in linea con i profili e le conclusioni che chi scrive aveva recentemente evidenziato su questa rivista.

In questo senso – e si fa particolare riferimento alla sorte dei procedimenti penali in corso al momento della pronuncia delle SS.UU. – è sicuramente da ricordare una recente pronuncia del G.U.P. di Cosenza che ha dichiarato “non luogo a procedere” nei confronti di un commerciante con la formula “perché il fatto non costituisce reato“.

Nello specifico, scorrendo nel dettaglio le motivazioni delle pronunce, non può non evidenziarsi come – pur volendo in questa sede prescindere da ogni disamina in merito alle distinzioni dogmatiche tra dolo e colpevolezza – la pronuncia abbia – in piena conformità alle indicazioni fornite dalle SS.UU. – ritenuto – in presenza di un contrasto giurisprudenziale al momento dei fatti – di escludere ogni responsabilità in capo al commerciante, in quanto questi “ha agito in una condizione di non confutabile buona fede nel porre in vendita o nel detenere per la vendita, in negozio specializzato, la sostanza rinvenuta e sequestrata”.

Orbene, alla luce di quanto appena anticipato, i giudici di merito – in ossequio all’insegnamento delle SS.UU. – hanno confermato che lo stato di incertezza giurisprudenziale e di oscurità del testo legislativo (nel periodo antecedente all’intervento delle Sezioni Unite) può integrare un’ipotesi di errore scusabile idoneo ad inficiare la sussistenza dell’elemento soggettivo in capo al commerciante, anche nelle ipotesi (purché avvenute in epoca anteriore alla pronuncia delle Sezioni Unite) in cui il THC rilevato possa dirsi incluso nell’intervallo tra lo 0.5% e lo 0.6%.

Detto altrimenti, in questi casi, tutti i procedimenti pendenti si potrebbero (e si dovrebbero) chiudere – alle condizioni sopra descritte – con una pronuncia liberatoria nei confronti degli attuali indagati/imputati, quanto meno per insussistenza dell’elemento soggettivo.

E sui parametri idonei a quantificare la c.d. idoneità drogante?

Sul punto, in attesa di un intervento legislativo chiarificatore, non possono comunque essere sottaciute due recenti pronunce dei Tribunali del Riesame di Catania e di Ancona, le quali sembrano aver confermato quanto ritenuto dalla nota pronuncia del Tribunale di Genova, confermando la soglia di idoneità allo 0.5%.

Di conseguenza – pur con i limiti tipici delle attività astrattamente rischiose puntualmente evidenziati dall’odierno scrivente – non può escludersi che tali attività possano dirsi lecite qualora vengano contemporaneamente rispettati i requisiti del rispetto della soglia dello 0.5% e della provenienza da varietà certificate.

D’altro canto, onde evitare – o quanto meno cercare di circoscrivere il più possibile – i possibili rischi che allo stato sembrano essere connessi con l’attività di commercializzazione al pubblico, ad avviso di chi scrive, sarebbe opportuno – in attesa di puntuali indicazioni da parte del Legislatore – che i negozi specializzati implementassero le procedure preventive di controllo sulla qualità e sulla provenienza dei prodotti, se del caso, anche mediante controlli periodici (a campione) sui livelli di THC e sulla provenienza dei prodotti messi via via messi in commercio.

Avvocato Mattia Miglio

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