Lasciateci lavorare con la canapa! L’appello del dottor Giampaolo Grassi

Canapa economia e politica //

Non si sta parlando di liberalizzazione o legalizzazione, ma semplicemente di libertà di lavorare con la canapa.

In questo susseguirsi di decreti, in cui le misure assumono la disperata forma di giustificazioni, contentini, promesse, elemosine e altro ancora, nelle attese e speranze di diverse decine di migliaia di italiani c’è la banale, ma fondamentale speranza di ottenere la libertà, di lavorare in serenità, con la canapa.

Sono quasi una decina i procedimenti giudiziari attivi in questo periodo che hanno per argomento la canapa industriale e tutti hanno come capi di imputazione unicamente gli articoli del Testo Unico della 309/90 (la legge che regola gli stupefacenti, ndr), perché i pubblici ministeri non si rifanno alla più recente legge sulla canapa industriale, cioè la 242/2016, la grande sconosciuta. Nonostante in questi casi ci siano i documenti che attestano che le varietà di canapa utilizzate sono incluse nella lista europea delle varietà ammesse all’impiego in campo agricolo, le Forze dell’Ordine intravvedono unicamente infrazioni ascrivibili alla 309/90.

Sino a qualche tempo fa, prima dell’era Salvini, l’articolo più spesso contestato agli imputati era il n. 73, cioè coltivazione di piante con attività stupefacente.

Era relativamente semplice discutere di queste imputazioni perché gli strumenti e le prove da addurre per dirimere la questione se si trattava di varietà industriale ammessa alla coltivazione o pianta di cannabis destinata a produrre sostanza stupefacente (THC) sono disponibili ed abbastanza conosciute. La ricerca e le informazioni oramai hanno raggiunto i più ed hanno fatto chiarezza su questa problematica.

Il documento che elenca in modo completo le modalità per caratterizzare le diverse varietà è stato pubblicato proprio dall’Onu: United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), “Recommended methods for the identification and analysis of cannabis and cannabis products” (2009). In questo manuale (redatto in molte lingue, ma purtroppo non in italiano e forse è per questo che molti tutori dell’Ordine non lo applicano), ci sono i riferimenti ai metodi analitici utilizzati per analizzare la cannabis ed i suoi prodotti, si spiega il rapporto esistente tra la concentrazione del delta-9-tetraidrocannabinolo (THC) ed il cannabidiolo (CBD) e come questo rapporto sia indicativo e valido per assegnare la pianta analizzata al gruppo che comprende quelle da droga o a quelle per uso industriale.

Questo tipo di rapporto si interpreta meglio se si invertono l’ordine dei fattori e così se il valore del rapporto CBD/THC è superiore a 10 la varietà apparterrà sicuramente al gruppo della canapa industriale invece se è inferiore, c’è la possibilità che la varietà sia in grado di produrre elevate concentrazione della sostanza stupefacente.

Recentemente è stato pubblicato un lavoro scientifico che dimostra, sulla base dell’analisi del DNA della pianta, il ruolo delle informazioni genetiche che consentono di accumulare elevate concentrazioni del THC. In pratica si va ad individuare la presenza dell’enzima che produce prevalentemente CBD e se questo è nettamente superiore a quello che sintetizza il THC si ha la prova certa che la pianta appartiene alla famiglia delle varietà ad uso industriale. Un’analisi di questo genere non è complessa e tanto meno costosa. Anche un laboratorio universitario o un laboratorio di analisi che valuta le piante OGM potrebbe allestire questo tipo di test ad un costo che non supera i 100 euro per campione.

L’attuale orientamento dei diversi pubblici ministeri invece è quello di prelevare tutti i lotti di materiale presenti nell’azienda controllata (in un caso più di 200 diversi campione) e coinvolgendo un laboratorio forense, chiedendo di eseguire un’analisi qualitativa e ed una quantitativa per accertare la concentrazione dell’unico cannabinoide stupefacente, il THC. Quasi sempre non si riporta neppure il valore del CBD, negando persino la possibilità al coltivatore di dimostrare che si tratta di materiale prodotto da varietà industriale.

Una volta che il laboratorio ha determinato che nei campioni c’è la sostanza cannabinoide THC e individuata la concentrazione, viene fatta la sommatoria delle diverse quantità che sono presenti nei campioni. Il ragionamento incomprensibile per una persona dotata di normale intelligenza è quello per cui nel conteggio dei quantitativi complessivi di sostanza stupefacente vengono computati anche i quantitativi presenti in campioni derivati da piante sicuramente appartenenti alle varietà industriali che hanno il contenuto massimo di THC inferiore allo 0,2%. Se fosse considerata la legge italiana 242/2016 sarebbe consentito detenere canapa con un contenuto massimo di THC pari allo 0,6%, ma come abbiamo detto, al cittadino non è consentito ignorare le legge, ma a certi legali è condonata l’ignoranza relativa alla 242/2016.

Pare che la differenza sostanziale tra l’applicazione della 309/90 e la 242/2016 sia la localizzazione del prodotto canapa e dal suo stato. Per essere chiari: se un agricoltore ha un campo di 10 ettari di canapa, con un contenuto medio di THC pari allo 0,5%, che corrisponde mediamente alla potenzialità di disporre di 5 kg di THC non gli viene contestato nulla, ma se un produttore di canapa light detiene nel suo magazzino100 kg di fiori secchi con lo 0,2% di THC, viene accusato di detenzione di 200 gr di THC e viene processato per questo.

La conclusione è che in questa situazione drammatica di emergenza sanitaria, i produttori di canapa non devono solo tenersi ben alla larga dal virus e dalle conseguenze economiche di questa pandemia, ma devono inventarsi soluzioni impossibili per commercializzare i derivati della canapa industriale che una legge (242/2016) gli avrebbe in teoria consentito di poter fare.

L’Europa anche in queste ultime settimane ha dato segnali inequivocabili sulla utilizzazione dei derivati della canapa, ma nel nostro Paese tira ancora un vento contrario e gelido che blocca ogni speranza di lavorare liberi da pensieri e timori di incappare nella ragnatela che alcuni irresponsabili tutori della legge ha tessuto.

Giampaolo Grassi – Canvasalus Srl

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