Il dibattito sulla cannabis non si ferma ed è più vivo che mai, ma, mentre la politica stenta a dare risposte, molte delle decisioni sia a livello italiano che internazionale vengono prese nei tribunali. Da una parte i processi come quello che ha coinvolto Walter De Benedetto, paziente affetto da artrite reumatoide che coltivava cannabis per sé a scopo terapeutico, conclusasi con l’assoluzione; dall’altra le lotte che vedono coinvolti gli imprenditori che, rispettando i limiti imposti dalla legge, hanno creato un business legale intorno alla cannabis light. Tra loro anche Luca Marola, fondatore di EasyJoint.
La storia di EasyJoint, azienda pioniera nel settore della cannabis light, inizia con l’entrata in vigore della legge sulla canapa industriale del 14 gennaio 2017, che autorizza la libera coltivazione della canapa con un contenuto di THC, principale componente psicoattiva della pianta, non superiore allo 0,2%.
Con il via libera a livello nazionale e nessuna specifica relativa alle infiorescenze, Luca Marola decide così di dare vita a un’azienda specializzata in cannabis light (ossia cannabis che ha, appunto, un livello di THC inferiore allo 0,2%) e che in un anno arriva a fatturare un milione e mezzo di euro: EasyJoint.
Nonostante rientri nei parametri imposti dalla legge, la cannabis light si trova presto ad affrontare una guerra, mossa in particolare da procuratori di destra e politici reazionari, che si consuma a suon di sequestri e processi e, tra i tanti, anche Luca Marola viene accusato di spaccio di stupefacenti e ora rischia dai 6 ai 20 anni di reclusione: è stato rinviato a giudizio e i processo inizierà il 21 luglio del 2022.
Dal luglio 2019, ossia da quando la Procura di Parma ha sequestrato quasi 650 chilogrammi di infiorescenze vendute legalmente in tutta Italia, EasyJoint e Luca Marola, chairman dell’azienda, sono sotto indagine. A confermare il sequestro anche la Corte di Cassazione, intervenuta dopo che gli indagati avevano scelto di fare ricorso. Per saperne di più abbiamo intervistato Luca Marola.
Attualmente la legge italiana presenta delle lacune in merito alla possibilità o meno di commercializzare la cannabis light e in una recente comunicazione di EasyJoint si definiva quella della Corte di Cassazione una sentenza “pilatesca”. Perché? Quali sono le motivazioni portate avanti dalla magistratura?
EasyJoint nacque nel 2017 con lo specifico scopo di denunciare le lacune invitando la politica a riformare la norma affinché quanto proclamato nella legge potesse essere pienamente realizzato. Eliminare la possibilità di produzione e conseguente commercio di oli ed estratti, i due prodotti di punta del mercato globale della cannabis, avrebbe reso irrealizzabile lo scopo della legge che è “il sostegno e la promozione della filiera della canapa”. Per primo mi sono assunto la responsabilità di questa operazione, ben conscio che, se la politica non avesse risposto alla sollecitazione, l’unica strada per garantire il mercato nato di conseguenza sarebbe stata la via giudiziaria.
Per questo motivo attendevamo con ansia la sentenza delle Sezioni Unite di maggio 2019; in cuor mio ero certo che la Suprema Corte avrebbe certificato la bontà della mia iniziativa, avrebbe garantito la stabilità del nuovo settore produttivo e commerciale, avrebbe ristabilito la certezza del diritto ed avrebbe colmato le lacune della legge. Ma non andò così. La sentenza afferma tre elementi: che la politica parlamentare metta mano alla legge; che le infiorescenze, non essendo espressamente citate, non si possono vendere; che non è reato se “non è dimostrata la capacità drogante in concreto”. Senza esplicitamente definire qual è questa soglia drogante. Così facendo, la Corte ha lasciato ampi margini di discrezionalità ai magistrati inquirenti e, in quest’ultimo anno, si è arrivati alla situazione paradossale che a distanza di 50 km vi siano realtà simili di cui una è libera di sponsorizzare la squadra cittadina in serie A con tanto di striscioni allo stadio, l’altra si trova col sito e magazzino sequestrato con un’accusa di spaccio.
E quindi cos’è accaduto?
Una parte della magistratura inquirente, la parte più reazionaria, anche se fortunatamente minoritaria in Italia, grazie alla legge scritta male e alla sentenza per lo meno sibillina, ha costruito una impalcatura accusatoria che, in sostanza, afferma che il fiore di canapa, non espressamente citato in legge e quindi non protetto giuridicamente, deve essere considerato droga a prescindere dal THC presente. E tutto questo è possibile perché l’unica legge penale che cita la cannabis, ma senza alcuna specificazione, è la legge sugli stupefacenti. A questo punto, trasformato un fiore senza capacità drogante in droga, si applicano alle indagini e al processo penale le regole dei processi per stupefacenti: si calcola il THC presente, lo si somma tutto e si calcolano quante dosi droganti se ne ricavano. E quindi io sono accusato di spaccio per i 649 kg di fiore di canapa, tutto sotto lo 0,2% di THC, che genera poco più di 65mila dosi droganti. Il problema che una dose drogante è contenuta in 16 grammi di canapa e quindi, perché vi sia efficacia drogante, uno dovrebbe fumarsi tra le 16 e le 20 canne in contemporanea per sentire un vago effetto stupefacente. Grottesco, non trovi?
Quindi è un processo che riguarda tutto il settore?
Questo è il mio processo. Se un giudice decide che è droga una droga che non droga, il problema sarà di tutti. Ed è per questo che il processo di Parma o meglio, il “modello Parma”, è estremamente pericoloso per l’intero settore. Da agosto ad oggi almeno 15 Procure italiane hanno adottato questo modello portando a sequestri di aziende, magazzini, siti online e denunce. Penso alla Sardegna, a Catania e Ragusa, ad Asti ed Alessandria, La Spezia e Cuneo. In tutte queste città il Procuratore capo ha fatto esplicito riferimento al “modello Parma”. Se passano a Parma, a cascata, arrivano ovunque. Se li fermiamo qui, facciamo quello che la politica non è riuscita a fare in quattro anni: legittimiamo definitivamente il settore.
Quali sono state le conseguenze dirette per EasyJoint oltre al sequestro del luglio 2019? Cosa è successo da allora?
Il sequestro dei 649 kg ha portato alla distruzione dell’intero magazzino per un valore di almeno 2 milioni di euro. Ci sequestrarono anche 19 litri di olio al CBD, riconsegnato quando era già scaduto quindi altra perdita di altre decine di migliaia di euro. Da allora la Procura ha cercato di danneggiare quanto più possibile la mia struttura operativa perché, come ha scritto il Procuratore nell’accusa, “Marola è la macchina del consenso sulla cannabis light, capace di propagare l’equivoco sulla liceità di un prodotto che lecito certamente non è; capace di influenzare l’opinione pubblica, i media, la politica, le istituzioni e la magistratura associata”. Pensano che disintegrando EasyJoint, l’intero settore scomparirà. Questo è il mio avversario.
I mezzi utilizzati in questi due anni sono molteplici, per legittimare un’inchiesta di 7mila pagine: sequestro del sito, cancellazione perpetua dell’oggetto sociale in Camera di Commercio (altra metodologia sperimentata a Parma ed adottata oggi dalle Camere di Commercio di una ventina di città), interdizione temporanea ad amministrare qualunque società abbia per oggetto la “commercializzazione della canapa e dei suoi derivati” (paradossalmente anche lenzuola o magliette di canapa…).
Qual è la situazione attuale, a quasi due anni da quel luglio nel quale è iniziato tutto?
In questi mesi mi sono concentrato sul processo: se è il processo-pilota, il processo per piegare le Procure d’Italia alla rappresentazione più reazionaria e truculenta del nostro settore, devo essere all’altezza. In effetti mi sto preparando a questa evenienza fin dal primo giorno, da quando diedi l’avvio alla cannabis light. La Procura di Parma sta orchestrando per “fare giurisprudenza”, parole del Procuratore in conferenza stampa, e chiudere per sempre, e per tutti, la partita. Io mi sento tutta la responsabilità sulle spalle e la volontà di costruire una splendida difesa processuale. Con i molti sostenitori stiamo preparando qualcosa di mai visto prima. Non sarò solo in quell’aula e faremo in modo che il pubblico, il settore imprenditoriale, i consumatori, gli scienziati, i media, la politica, gli attori del diritto e l’associazionismo antiproibizionista possano, ognuno mantenendo le proprie caratteristiche, partecipare al processo. Me lo sto immaginando come un incrocio tra “Codice d’onore” e il “Rocky Horror Picture Show”.
Se mi portano a processo perché sono riconosciuto, finalmente qualcuno lo riconosce ufficialmente, come l’artefice e la macchina del consenso sulla cannabis light, allora io porto a processo il proibizionismo e le sue grottesche assurdità.
Come lei ha già sottolineato in precedenti interviste, una legge chiara è fondamentale per tutelare l’intera filiera e l’intero settore. In che modo dovrebbe cambiare la legge? Quali sarebbero, secondo lei, i benefici a livello nazionale?
Serve un decreto composto da non più di sei parole che incida sulla legge sulla canapa inserendo “pianta nella sua interezza”, “fiori ed estratti” e che incida sulla legge sugli stupefacenti escludendone l’applicazione alla “cannabis industriale nella sua interezza e per ogni sua parte”. Qualunque altra iniziativa legislativa è fuffa: non ci sarebbero le condizioni, nemmeno temporali, per farla approvare. E che non mi si parli di fantomatici tavoli tecnici: solo chi ha un’attitudine bovina può sinceramente pensare che un tavolo tecnico solo consultivo che può durare per altri due anni e i cui limiti non sono ancora chiariti sia la soluzione.
Cosa è importante fare per portare avanti il dibattito sulla cannabis a livello nazionale?
Sostenere i gruppi antiproibizionisti organizzati e continuare la pressione sulla politica. In questi ultimi mesi, tra i tanti, si è distinta la piattaforma antiproibizionista Meglio Legale per efficacia, capacità attrattiva, numero di iniziative organizzate, presenza sui media. C’è finalmente del professionismo. Ed è accaduto qualcosa di gigantesco ed inaspettato; il fronte largo antiproibizionista, coordinato da Meglio Legale, è riuscito in un’impresa che entra nel “Guinnes dei primati della politica”. L’antiproibizionismo italiano ha il record del primo referendum online nella storia della Repubblica ed ha il record di velocità: essere riusciti a raggiungere il quorum delle 500.000 firme in soli 5 giorni. Ora quel che spero accada è che ogni singolo sottoscrittore, ogni singolo antiproibizionista si trasformi in un attivista per il referendum. Una campagna referendaria permanente che inizia oggi e ci porta fino al voto, capace di mobilitare l’opinione pubblica, fare informazione corretta contro le terrorizzanti fake news che spargeranno i proibizionisti, in grado di portare ai seggi tutti gli amici, i parenti ed i conoscenti per assestare il colpo mortale al proibizionismo, ai danni, alle sofferenze che ha generato in questi decenni.
E riguardo invece alla cannabis light?
Per la cannabis light, invece, c’è poco da fare. Dopo 4 anni di iniziative, incontri istituzionali, dossier, emendamenti, proposte di legge e manifestazioni, sono abbastanza convinto che dalla politica non avremo alcuna soddisfazione. L’alternativa c’è: vincere il processo di Parma che comincerà il 21 luglio prossimo, trascinare lo Stato Italiano a risarcire i danni che abbiamo subito, rovinare la carriera di un procuratore additandolo al pubblico ludibrio affinché nessun altro suo collega, in futuro, si azzardi ad architettare un’inchiesta del genere. Mi capitò una cosa simile nel 2010-2012: là si portò a processo 64 grow shop; venimmo tutti assolti (io fui l’ultimo, assolto in appello) e da quel momento, di maxi inchieste per istigazione alla produzione di stupefacente per la vendita dei semi di cannabis non ne sono nate più. Battere il proibizionismo in un’aula giudiziaria, fare quello che la politica non ha avuto il coraggio di fare in 4 anni e poi festeggiare. Tanto. E a modo nostro, nel modo in cui festeggia chi ha la consapevolezza di essere, ed essere sempre stato, dalla parte giusta della Storia.
Martina Sgorlon