Secondo le associazioni della canapa di tutto il mondo, il CBD sarebbe già legale a livello industriale. L’affermazione nasce dalle normative e dalle convenzioni internazionali già in vigore, che sosterrebbero implicitamente la legalità del cannabidiolo. Ecco tutti i dettagli.
Undici associazioni internazionali legate al settore della canapa — Asia Pacific CBD Union, Australia Hemp Council, British Hemp Alliance, Canadian Hemp Trade Alliance, European Industrial Hemp Association, Hokkaido JP Industrial Hemp Association, Hemp Industries Association, Latin American Industrial Hemp Association, Mongolian Hemp Association, National Hemp Association e New Zealand Hemp Industries Association — hanno concordato una posizione comune sul CBD sostenendone la normalizzazione e la legalizzazione a livello internazionale, che, secondo loro, sarebbe implicita nelle convenzioni internazionali già esistenti. La posizione è ampiamente spiegata in un documento condiviso.
A essere analizzate sono state le International Drug Control Conventions (IDCC), le principali convenzioni internazionali sul controllo delle sostanze stupefacenti che comprendono la Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961 e la Convenzione del 1971 sulle sostanze psicotrope. Tali convenzioni impongono regole rigorose per la coltivazione della cannabis per la ricerca e il settore farmaceutico, ma, secondo le associazioni, le disposizioni non si dovrebbero applicare alla canapa industriale e agli usi della pianta non correlati alle sostanze stupefacenti.
“Alla luce dello sviluppo globale dei mercati della canapa industriale e della sua materia prima Cannabis sativa L., il settore internazionale della canapa industriale, come rappresentato dalle sottoscritte organizzazioni, desidera ribadire la propria posizione su questo argomento e sottolineare la necessità di chiarimenti e di un dibattito trasparente sul diritto internazionale e sui regolamenti relativi alla canapa”, si legge nel documento rilasciato dalle undici associazioni.
A finire sotto il microscopio è stata in particolare la Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961, che nel suo preambolo afferma che l’insieme delle norme emanate mira a proteggere la salute e il benessere dell’umanità, garantendo l’accesso ai farmaci per alleviare il dolore e la sofferenza, ma combattendo i rischi per la salute, l’abuso e la dipendenza da droghe, così come il traffico illecito.
“Nel diritto internazionale il preambolo è la parte preliminare di uno strumento giuridico che espone le ragioni e l’intenzione del testo; esprime quindi le finalità generali di un atto normativo”, si legge nel documento rilasciato dalle associazioni. “Come chiaramente inquadrato nel suo preambolo, quindi, lo scopo, la nozione, lo spirito e la logica alla base della Convenzione riguardano fondamentalmente le ‘droghe stupefacenti’ (cioè, oppiacei e prodotti farmaceutici) e la prevenzione del loro uso improprio (in termini di consumo e commercializzazione) come così come il loro traffico illecito. I prodotti a base di canapa non portano ad abuso o dipendenza, poiché il livello di THC in questi prodotti è estremamente basso. Alla luce dello spirito enunciato nel preambolo della Convenzione, ciò dovrebbe essere sufficiente per considerare la canapa fuori dal campo di applicazione delle Convenzioni”. I prodotti a base di canapa, infatti, non rientrano nelle disposizioni di rigorosa limitazione all’uso medico o scientifico, ma toccano anche, per esempio, il settore alimentare e cosmetico.
Inoltre, nella Convenzione la cannabis viene definita come “le sommità fiorite o fruttifere della pianta di canapa (a esclusione dei semi e delle foglie non accompagnate dalla sommità), dalle quali non sia stata estratta la resina, qualunque sia la loro utilizzazione”. I semi e le foglie, quindi, così come i loro derivati, non rientrando in questa definizione non dovrebbero essere regolati da tale Convenzione.
Alla luce delle analisi, le associazioni suggeriscono diverse soluzioni e diversi punti sui quali intervenire a livello internazionale, in primis l’esclusione dalle convenzioni di tutte le piante e dei loro derivati se utilizzati per scopi medici e scientifici non correlati ai farmaci; in pratica, si legge, “l’esenzione per la coltivazione e la lavorazione della Cannabis sativa a fini industriali è attuata attraverso il rispetto di specifici livelli di THC; nessun’altra sostanza (es. cannabidiolo, CBD, o qualsiasi altro cannabinoide) deve essere presa in considerazione per la determinazione della liceità delle colture e dei prodotti di cannabis industriali”.
A questo si aggiungono le proposte legate, nello specifico, al THC. “Il potenziale uso improprio delle foglie di cannabis dovrebbe continuare a essere prevenuto attraverso la fissazione di adeguati limiti di THC (come stabilito dalle autorità competenti), per conformarsi alle disposizioni dell’articolo 28, paragrafo 3 di C61”, ma, allo stesso tempo, “il settore internazionale della canapa propone una soglia di THC nei fiori e nelle foglie di canapa da fissare all’1,0% dopo la decarbossilazione”.
In conclusione, secondo le associazioni, la canapa dovrebbe essere definita come “una pianta di Cannabis sativa L. — o qualsiasi parte della pianta — in cui la concentrazione di tetraidrocannabinolo (THC) nelle sommità fiorite o fruttifere è inferiore a quella regolamentata livello massimo, come stabilito dalle autorità competenti”. Gli estratti di canapa o i prodotti della canapa dovrebbero invece essere definiti come “prodotti o preparati derivati dalla canapa industriale”, esplicitando quindi la differenza tra i due settori di utilizzo della pianta.
“Interpretazioni divergenti significherebbero la creazione di un nuovo livello di norme sui generis che potrebbero sancire misure di controllo più rigorose ed eccessivamente restrittive rispetto a quelle applicate alla canapa dalla maggior parte dei firmatari delle Convenzioni. Interpretazioni più rigorose danneggerebbero, senza dubbio, un settore agricolo già soggetto a un’importante serie di sentenze e si opporrebbero alla tendenza globale di semplificazione delle leggi relative alla canapa a sostegno di un’industria della canapa non problematica e in continua espansione”, conclude il documento.
Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità sembra dare ragione alle associazioni di settore. Già nel 2017, infatti, ha affermato che il CBD allo stato puro non dovrebbe essere trattato e normato come una sostanza stupefacente, in quanto “sicuro e ben tollerato negli esseri umani (e negli animali) e non associato ad alcun effetto negativo sulla salute”.
Nel 2019, questa posizione si è tradotta nella decisione delle Nazioni Unite di rimuovere la cannabis dalla categoria IV della Convenzione sulle sostanze stupefacenti, ossia la classificazione più restrittiva nella Convenzione Unica del 1961.
Martina Sgorlon