Canapa e disinformazione: da risorsa impiegata per millenni dall’umanità per gli scopi più vari, a “problema” creato a tavolino proprio dall’uomo nell’ultimo secolo. E’ la parabola della canapa nella storia recente con pesantissimi strascichi culturali a livello di percezione dei suoi benefici e disinformazione sistematica portata avanti da governi, istituzioni e multinazionali. Per capire le regioni profonde che hanno portato la canapa a rischiare di sparire dai nostri campi, per tornare come risorsa a 360 gradi per l’economia, la salute, l’agricoltura e l’industria, iniziamo a pubblicare una serie di contenuti scritti dal nostro Giuseppe Fiorenza, che fanno parte di un’analisi più ampia sul tema “canapa e comunicazione”, raccontato in modo approfondito nella sua tesi di Laurea in “Media, comunicazione digitale e giornalismo” all’Università La Sapienza di Roma, dal titolo “Transmedia for canapa, transmedia for good e rebranding della canapa in Italia”.
La coltivazione della pianta di canapa avviene da millenni e trova le sue origini in Asia centrale, dove cresceva già in maniera spontanea. Fin dai suoi primi impieghi, la pianta era molto apprezzata sia per le sue indubbie qualità tessili dalle popolazioni asiatiche (le tracce più antiche sono state rinvenute tra le tribù mongole, in villaggi tartari, cinesi e giapponesi), sia per le sue eccellenti virtù terapeutiche. In tempi relativamente più recenti, della canapa narra Erodoto, il “Padre della storia”, secondo Cicerone. Stando alle sue “Storie”, apprendiamo che nel V secolo a. C. c’erano sicuramente tracce importanti della pianta in Europa. Gli studiosi ne sostengono la tesi e fanno risalire l’introduzione della canapa nell’Impero Romano alle tribù nomadi sciite attraverso i riti di purificazione celebrati durante i funerali, da una parte, e grazie ai commercianti che battevano la via della seta, una vera e propria autostrada antica, crogiolo di culture, usi e costumi diversi, dall’altra. Possiamo considerare la fittissima rete di strade e di canali fluviali come il primo internet, ma senza tutte le censure odierne.
Nel corso dei secoli, poi, e con le innovazioni applicate in campo cantieristico navale, finalizzate ai grandi viaggi transoceanici, la canapa divenne la pianta più apprezzata dai marinai che la usavano con eccellente efficacia per intrecciare il cordame, senza il quale non sarebbe stato possibile costruire le nuove imbarcazioni, e creare vele più resistenti per vere e proprie navi-cargo e fortezze galleggianti con le quali si formarono i grandi imperi moderni come Spagna, Portogallo e Inghilterra.
La canapa era ormai considerata la regina delle piante da fibra, lo standard da usare per misurare tutte le altre fibre. All’immagine di Cristoforo Colombo che poggia le mani sulla balaustra della Santa Maria mentre osserva avvicinarsi la costa del Nuovo Mondo, dobbiamo aggiungere l’immagine, accanto alle sue mani, lì, tesa, di una scotta in fibra di canapa tutta da cazzare.
Enrico VIII d’Inghilterra in persona aveva compreso l’enorme importanza della canapa per l’allestimento delle sue navi per cui incoraggiò con appositi programmi agricoli la coltivazione della pianta nelle campagne del suo regno, fino a renderla obbligatoria per legge. Tutto ciò che era a bordo di una nave, in qualche modo, era fatto con la canapa: il cordame, le vele, le brande, la stoppa, i sacchi, i gagliardetti, le mappe profumavano di canapa.
Il commercio, la via della seta, la navigazione transoceanica, dunque, furono i canali principali entro i quali si diffuse la coltivazione e la trasformazione industriale della canapa. Ma non possiamo non citare che, ancor prima di Enrico VIII, prima di Cristoforo Colombo, e dei viaggi alla “scoperta” dei nuovi mondi, la canapa era il materiale più usato durante l’epoca delle repubbliche marinare, soprattutto durante i secoli del dominio veneziano. Fu grazie ad esse che l’Italia divenne il primo produttore di canapa del mondo intero per la qualità della fibra.
Luigi Bodio, economista di spicco della fine dell’ ‘800, nel suo “Appunti di geografia agricola italiana. Produzione del lino e della canapa” riportava le zone della canapicoltura:
In Piemonte “è confinata a poche strisce negli orti dei contadini per uso domestico o per averne il seme da dare agli uccelli”…
Ad Alessandria “si abbandona per la mancanza dei maceratori e per la crescita della coltivazione dei cereali”…
In Lombardia “tutti i contadini un po’ agitati della Brianza ne seminano qualche ara per ottenere del filo da mischiare con il lino per far la tela di consumo casalingo”…
Rovigo e Pistoia erano tra le zone più fruttuose, ma la corona restava in testa alla Romagna, dove si coltivava la metà di tutta la produzione disponibile nel mercato italiano…
Insomma canapa ovunque e per chiunque, pianta dai mille usi e utile per rivitalizzare terreni a maggese e sfamare le persone, fino agli anni ‘30 del ‘900, quando entrano in gioco le due cause alle quali si deve la drastica diminuzione della coltura di canapa in Italia e nel resto d’Europa: la plastica, le fibre sintetiche e l’America.
Con l’arrivo del petrolio e dei suoi derivati, i materiali plastici resistenti come nulla mai visto prima e le vernici, nella cultura occidentale l’utilità della canapa, che richiede manodopera e cura, viene messa in discussione.
La meccanizzazione e l’automazione dei processi produttivi che avevano avuto origine un secolo prima, ebbero un’accelerazione impressionante anche grazie ai mezzi di comunicazione di massa che favorirono la condivisione di informazioni e conoscenze (Chiamiamola pure una Via della seta 2.0)
Tra le realtà che si trovarono a competere con la canapa, più di tutte furono quella giornalistica e delle industrie chimiche. L’azienda chimica Du Pont si coalizzò con la catena di giornali Hearst e fu avviata una martellante campagna giornalistica durata anni mirante a demonizzare la pianta. Le informazioni si concentravano su una combinazione di immaginari cupi e preoccupazioni derivanti dall’uso ludico ricreativo della pianta di canapa per abbattere il principale competitor di questi nuovi player.
Negli anni ‘20 e ‘30 del 1900, con l’avvento del cinema, si diffuse nella cultura popolare americana il termine Marijuana, che fu collegato alla pianta con foglie seghettate da articoli di giornali e film. Tra questi ultimi, la pellicola a scuotere di più le coscienze degli americani fu “Reefer madness”.
La comunicazione di massa favorì il dilagare di immagini e messaggi che screditarono l’uso della canapa, complice una mancanza di alfabetizzazione mediatica che all’epoca rendeva particolarmente credibili i film poiché, essendo una novità, erano il riflesso della realtà anche perché il pubblico non aveva idea del processo di realizzazione di una pellicola e non aveva alcun tipo di deterrente cognitivo che gli consentisse di valutare con sano scetticismo quanto assorbito dai messaggi che passavano sul grande schermo. Un esempio molto interessante è l’effetto che ebbe lo scherzo radiofonico di Orson Welles, durante il quale l’annuncio di una finta invasione aliena scatenò un caso di isteria di massa.
Nel film Reefer Madness (1936) venne ritratto un gruppo di giovani sani, perbene, studiosi che, dopo essere entrati in contatto con i “reefer” (in italiano “spinello”), si trovano inghiottiti in una spirale di decadimento morale e psicologico. Addirittura durante il film, al minuto 28:27, due personaggi, un avvocato e un giudice, si trovano a disquisire sugli effetti dell’uso di questo prodotto terribile, sostenendo che per ottenerne una dose un ragazzo era arrivato a “uccidere l’intera famiglia con un’ascia”. La terminologia, la scenografia, i volti dei personaggi, tutto ciò non lasciava dubbi: la Marijuana era un pericolo da debellare con ogni mezzo e poco importava che la stessa pianta, nelle sue infinite varietà e usi, rappresentava una colossale fonte di introiti per molti paesi europei, Italia tra i primi. La combinazione di evoluzione mediatica e tecnologica, da una parte, e l’ignoranza riguardo ai processi produttivi cinematografici, dall’altra, fecero il resto, espandendo la demonizzazione della canapa a macchia d’olio.
Nel 1937 il Marijuana Tax act – emanato dal Congresso degli Stati Uniti d’America e firmato dal presidente Delano Roosevelt, vietò l’uso di cannabis estendendo, di conseguenza, il limite alla pianta di canapa, senza distinguere uso ludico e industriale.
In Italia l’abbandono della canapa fu graduale: nel 1940 il nostro Paese ancora manteneva il primato (secondi, dopo l’Unione Sovietica) e lo avrebbe mantenuto probabilmente ancora a lungo se non fosse stato per le concause sommatesi a partire dagli anni ‘50. Il rifiuto delle tecniche di macerazione ritenute troppo onerose, l’aumento del costo del lavoro, lo sviluppo dell’industria delle fibre sintetiche e, soprattutto, la più recente applicazione dell’art. 26 del Dpr 309/90 con le costanti campagne disinformative hanno inferto l’ultimo e più duro colpo alla canapicoltura e alla domanda di prodotti in canapa in Italia.
Eppure la canapa è una pianta che resiste da millenni alle tempeste alle quali la sottopongono madre natura e, a quanto pare, anche l’uomo. Oggi sono numerosissimi i professionisti, gli enti (tra tutti citiamo l’EIHA European Industrial Hemp Association), i network che stanno lavorando per riaffermare l’utilizzo e la conoscenza.
Se pensiamo che l’impatto economico totale che ruota intorno alla “pianta dei miracoli” negli Stati Uniti nel 2022 dovrebbe attestarsi sui 99 miliardi di dollari e che, spesso, l’economia europea (e italiana) seguono a ruota quella americana, allora forse possiamo immaginare per la nostra agricoltura e per tutta la sua filiera produttiva, un futuro verde canapa.
Giuseppe Fiorenza