Il possibile successo della canapa industriale italiana, ad oggi, è una sfida che possiamo ancora vincere ma che allo stato attuale delle cose si basa esclusivamente sulla buona volontà di associazioni e piccoli imprenditori illuminati che, insieme a tecnici, agronomi, coltivatori, designer, architetti ed artigiani più in generale, stanno mostrando a tutto il Paese le potenzialità di questa pianta che in Italia trova condizioni pedoclimatiche particolarmente favorevoli alla sua crescita.
Manca sicuramente l’apporto delle istituzioni: sia a livello di incentivi economici oltre che di capacità di visione globale del fenomeno canapa in tutto il mondo, ma anche a livello legislativo, visto che la legge che potrebbe dare una mano al settore al momento è ferma al Senato nonostante la promessa di tutta la classe politica di approvare un testo in tempi rapidi.
Ad ogni modo la quantità di canapa coltivata dal nord al sud dello stivale continua a crescere di anno in anno così come il settore alimentare, quello della bioedilizia e quello della cosmetica. Piccole aziende nascono e crescono dando un esempio virtuoso di quello che la canapa può fare per la nostra economia e l’ambiente in cui viviamo aprendo uno scorcio sul possibile cambiamento che questa pianta può portare al nostro futuro.
In questo fermento è nata Italcanapa, una rete di imprese creata per favorirne la coltivazione e la lavorazione in più filiere. L’idea di base è quella che, mettendo il contatto i coltivatori con i produttori ed i trasformatori, si può non solo garantire al coltivatore che la canapa venga ritirata a fine raccolto, ma soprattutto che la coltivazione serva a produrre qualcosa che, una volta immesso sul mercato, garantirà un ritorno economico anche allo stesso contadino, oltre che al trasformatore. Per Maurizio Salice, il fondatore di Italcanapa, “bisogna essere in grado di collegare la coltivazione, pianificandola, all’industria e poi al prodotto finito e di questo dare indietro valore al coltivatore, oppure temo che si tratterà solo di tante iniziative associative bellissime che però non sosterranno la complessità di un mercato economico”.
Come è nata l’idea?
Tutto nasce alcuni anni fa, per il fatto che ho lavorato all’estero. Di formazione sono uno psicologo ed ho lavorato per grandi aziende per lo sviluppo di knowledge management e così via; ho incontrato la canapa in Francia e in qualche modo mi sono appassionato di questa coltivazione. Rientrato in Italia, avendo a disposizione diversi ettari ho iniziato a coltivarla personalmente lavorando con dei contoterzisti per la trasformazione e ho maturato l’idea che le potenzialità di sviluppo che la canapa offre sono enormi e che per sviluppare veramente delle filiere bisognava mettersi tutti insieme. Grazie alle mie esperienze precedenti ho visto in questa nuova concezione di impresa che è la rete, la possibilità di realizzare una vera filiera completa. La rete che ho voluto fondare è dotata di soggetto giuridico e fondo patrimoniale, quindi è un’azienda a tutti gli effetti.
Qual è lo scopo?
L’idea è quella di rompere un attuale assetto in cui i produttori agricoli – che facciano canapa o meno – sono sottoposti ad uno schema che è davvero penalizzante. I consorzi e le grandi strutture realizzano i veri ricavi economi con la trasformazione. Io stesso sono un produttore ed ho pensato che se non si trova un’alternativa a questo sistema secondo me la canapa non decollerà in Italia perché il solo prodotto agricolo da sé non è sufficiente a sostenere l’intero sviluppo della filiera. Mettendo insieme tutte le aziende dal coltivatore al produttore finito, con una governance che si occupa della gestione del processo, noi potremmo gestire molte delle filiere che la canapa consente di sviluppare.
Come vedi il settore alimentare?
Sicuramente il seme ha un suo valore economico: noi riconosciamo 180 euro al quintale per il seme seccato e pulito piuttosto che 150 euro per le paglie pressate. Ma non è detto che devi fare solo questo: io ti posso aiutare a fare soltanto la fibra e quindi andare sulle 17 tonnellate a ettaro, se il fabbisogno che ho nell’azienda che ne ha bisogno me ne chiede un determinato quantitativo prima di avviare gli impianti.
Con la programmazione è tutto più semplice?
E’ una programmazione che è in funzione del mercato e del prodotto. Riusciamo a collegare la produzione agricola all’industria locale, io ad esempio sono in Campania ma lo faccio anche nel Lazio e nelle Marche, sviluppando e recuperando sia le partite iva degli artigiani, ma soprattutto l’industria che è ferma per le ragioni che sono ben note.
Come è strutturata Italcanapa?
Ho creato 4 dipartimenti. Il primo è quello agricoltura, del quale ha la responsabilità il dottor Giuseppe Sorrentino del CNR che è un esperto di innovazione con cui noi facciamo i nostri protocolli di coltivazione e vogliamo portare agli agricoltori successive coltivazioni che convergano sulla stessa filiera. Se oltre la canapa fai anche il grano in rotazione – noi adesso abbiamo un grano che è il tricordeum, ibrido di orzo e grano e capace di resistere alla siccità e fortemente nutraceutico – può entrare nella filiera della canapa. Secondo me la canapa deve legarsi a prodotti del territorio e poi girare su tutto il mercato nazionale come vogliamo fare noi con il nostro unico brand che è appunto Italcanapa. Poi ci sono le farine leguminose, la farina della patata del Vesuvio e altri prodotti come lieviti naturali che ci consentono di impastare anche in assenza di glutine per portare un prodotto che veramente si distingue e può dare risposta alla domanda del mercato. Quando noi usiamo il 10% di farina di canapa ed il 90% di grano cosa abbiamo fatto? E perché lo facciamo? perché otteniamo farina soltanto dall’estrusione dell’olio.
Nel senso che la farina di canapa ottenuta in questo modo non è di alta qualità?
Tutta la farina di canapa che si produce oggi è ottenuta dallo scarto di spremitura dei semi di canapa per produrre olio. Questa farina che otteniamo è una farina che al massimo possiamo utilizzare al 10/12% in un impasto perché la sua massa grassa è del 13% più di tanto non ne puoi utilizzare. Ma c’è un ma. Se tu ci pensi, noi le altre farine non le otteniamo come sottoprodotto, ma dalla macina a pietra ad esempio del seme. In questi anni mi sono impegnato per macinare il seme di canapa direttamente, senza aver tolto l’olio. Ci siamo riusciti e quindi con la macina a pietra otteniamo farina di canapa vera, e non il sottoprodotto. Lavorando questo prodotto otteniamo innanzitutto la crusca, che è lo scarto della macinazione, di canapa, e abbiamo la farina con tutte le proprietà dell’olio dentro: quindi è morbida è dorata e molto saporita, ma soprattutto la puoi unire al 30/40 o 50%.
E gli altri dipartimenti?
Abbiamo parlato di quello dell’agricoltura che è trasversale rispetto alle aziende e tocca diversi aspetti come l’innovazione meccanica, la ricerca e la commercializzazione. Io ho creato una matrice di competenze che nel caso ci siano progetti dentro la rete che sviluppano filoni di attività come sviluppo nuovi prodotti o nuovi impianti, e poi ho creato i dipartimenti che intervengono su tutti i progetti e danno le linee guida. Oltre a quello dell’agricoltura ci sono Impiantistica e sistemi, Ricerca e sviluppo e Marketing e sviluppo nuovi prodotti.
Come funziona il processo?
Dentro alla rete noi realizziamo prodotti finiti e li commercializziamo in co-branding con delle aziende che hanno le reti di vendita. E su questi prodotti facciamo i nostri ricavi economici. Il modello di impresa però restituisce alla filiera il valore economico di parte di ciò che si produce con la trasformazione. Da un quintale o da una tonnellata il valore del prodotto trasformato cresce del 300/400%. Abbiamo fatto una convenzione all’interno della rete per cui un ettaro, con il suo valore medio di 6 quintali di seme e le sue 6/7 tonnellate di paglia, è una quota dentro la rete. Tu mi dai il tuo prodotto agricolo che io ti pago al conferimento, ma, una volta che il prodotto viene commercializzato, io restituisco per quote il valore che mi rimane nel fondo patrimoniale. Quindi se hai un ettaro di restituisco una quota e quindi è un dividendo dell’utile che abbiamo fatto, se hai 3 ettari ti arrivano 3 quote: dentro la rete metti valore e riprendi valore organizzato. All’agricoltore non interessa che tu paghi una volta il conferimento, ma interessa che gli venga assicurata la continuità nei ritiri che a lui permette di andare avanti a coltivare.
Altre idee?
Una riguarda il conferimento della canapa per gli impianti di lavorazione. Secondo me bisogna cambiare approccio perché molti dei problemi derivano anche dal fatto che la canapa che viene conferita è assolutamente disomogenea per dimensioni. Siccome noi riusciamo a programmarlo un campo e io posso recuperare e riqualificare molti impianti che lavorano il trinciato di mais e che attualmente sono fermi, noi possiamo fare il trinciato di canapa che inserito in un processo di separazione ci fa guadagnare in termini di energia, di tempo e di qualità.
Quindi è un’operazione che passa anche per il recupero di macchinari ed impianti industriali?
Sì, è un’operazione che stiamo facendo anche con i forni di essiccazione del tabacco, oramai inutilizzati, e che invece funzionano per l’essiccatura e la cimatura della canapa. Il concetto è che non è necessario investire in macchinari da 600 o 700mila euro, si può incominciare recuperando le filiere dismesse da riqualificare che sono un patrimonio che può portare nuova economia.
Mario Catania