In attesa della sentenza delle sezioni unite della Cassazione prevista per fine maggio, che dovrà decidere riguardo la commercializzazione di cannabis light, l’avvocato Giacomo Bulleri, esperto di settore e consulente, fa chiarezza sull’attuale situazione normativa della canapa industriale, prodotto agroindustriale legale e normato.
L’intero settore della canapa sta attendendo con ansia la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che si dovrà esprimere sulla liceità della commercializzazione delle infiorescenze di canapa sativa L., nonché sulla tuttora irrisolta questione dei limiti di THC applicabili alle fasi post-raccolta.
Ritengo che, preliminarmente, sia necessaria fare un po’ di chiarezza su alcuni concetti base anche in considerazioni delle recenti “esternazioni” di alcuni esponenti politici che hanno denotato di non aver colto minimamente la portata del fenomeno o ne hanno voluto strumentalizzare i contenuti.
In primo luogo è necessario chiarire una volta per tutte che quando parliamo di cannabis sativa L. parliamo di una “pianta industriale” e di un “prodotto agricolo” e NON di una sostanza stupefacente.
Sul punto è sufficiente richiamare 3 norme sul piano internazionale e comunitario, ossia:
– la disposizione dell’art. 28 della Convenzione Unica sugli Stupefacenti di New York del 1961 (recepita dal nostro Paese con la L. n. 412/1974) che stabilisce espressamente che “La presente convenzione non verrà applicata alla coltivazione della pianta di cannabis fatta a scopi esclusivamente industriali (fibre e semi) o di orticoltura”
– il TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) 2012/C pubblicato in Gazz. Uff n. C 326 del 26/10/2012, nell’allegato I, alla lettera a) prodotti agricoli cui si applicano le disposizioni del medesimo Trattato, ricomprende la “canapa (cannabis sativa) greggia, macerata, stigliata, pettinata o altrimenti preparata, ma non filata”.
– il Regolamento di Esecuzione (UE) n. 2015/220 della Commissione del 3.02.2015 recante modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 1217/2009 del Consiglio relativo all’istituzione di una rete d’informazione contabile agricola sui redditi e sull’economia delle aziende agricole nell’Unione europea menziona espressamente la “canapa” tra le piante industriali;
Già da tali norme emerge chiaramente come la disciplina della canapa cd. industriale sia chiaramente esclusa dall’applicazione della normativa sugli stupefacenti.
La medesima impostazione è poi confermata anche sul piano nazionale dalle disposizioni di cui alla L. n. 242/2016, la quale, come noto, reca norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (Cannabis sativa L.), precisando tale “legge si applica alle coltivazioni di canapa delle varieta’ ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varieta’ delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309”.
Appare quindi evidente come la L. n. 242/2016 costituisca una lex specialis rispetto al DPR 309/1990, come peraltro rilevato dalla sentenza n. 4920/2018 della VI sezione penale della Corte di Cassazione, la quale ha ricondotto la materia della canapa industriale nei corretti binari di regola-eccezione determinando “il configurarsi di un microsettore normativo in radice autonomo per la cannabis proveniente dalle coltivazioni consentite”.
L’orientamento opposto, espresso essenzialmente dalla sentenza n. 7166/2018, si fonda invece sull’assioma che la cannabis sarebbe un genus unicum che come tale sarebbe ricompresa senza eccezioni nella disciplina di cui al DPR 309/1990 potendosi configurare come lecita la sola coltivazione di canapa industriale per le sole finalità di cui all’art. 2 della L. n. 242/2016 da ritenersi tassative.
Ma per comprendere i reali termini della questione occorre chiarire due concetti basilari per comprendere quale sia la portata della L. n. 242/2016 e quindi delineare i contorni dell’eccezione rispetto alla regola dettata dal T.U. Stupefacenti, ossia:
La canapa industriale per espressa previsione normativa è la cannabis sativa L. proveniente dalle varietà certificate iscritte nei registri comunitari (allo stato circa una settantina di varietà) che presentano valori di THC inferiori ai limiti di legge.
Tale canapa è una pianta industriale ed un prodotto agricolo ai sensi della normativa comunitaria sopra menzionata.
Per quanto attiene ai limiti di THC, questi sono fissati a livello comunitario nello 0,2% dal Reg. (CE) n. 73/09, anche se la Commissione Europea ha già deliberato l’innalzamento della soglia sino allo 0,3% a partire dal 2021.
La L. n. 242/2016, poi, all’art. 4, introduce una ulteriore soglia “di tolleranza” per l’agricoltore sino allo 0,6%, soglia oltre la quale può essere disposto il sequestro e la distruzione della coltivazione.
Ma quale è il limite applicabile ai prodotti finiti? 0,2% o 0,6%? E quale è la sorte della canapa compresa tra tali limiti? Per rispondere a tale domanda occorre prima rispondere alla seconda delle domande di cui sopra.
La filiera è l’insieme articolato (detto anche rete o sistema) che comprende le principali attività le tecnologie, le risorse e le organizzazioni che concorrono alla creazione, trasformazione, distribuzione, commercializzazione e fornitura di un prodotto finito.
Questa l’accezione del termine coniato dall’agronomo francese Louis Malassis comprendendo nella parola “filiera” tutte le fasi produttive agro-industriali dalla semina in campo alla fornitura del un prodotto finito. L’utilizzo del termine filiera denota come la legge sia naturalmente rivolta alle aziende (agricole e commerciali), le quali naturalmente dovranno poter vendere i prodotti ottenuti dalla filiera.
Appare contrario ad ogni logica giuridica sostenere che la L. n. 242/2016 sarebbe rivolta soltanto alla coltivazione della canapa e non alle fasi successive, in quanto non sarebbe dato comprendere che cosa i produttori potrebbero fare della canapa coltivata se non “contemplare” il raccolto (!).
Anzi, al contrario, è la stessa legge a prevedere espressamente come il sostegno e la promozione della filiera – ossia la ratiodella legge – riguardino la coltura della canapa finalizzata:
Ecco che dalla stessa formulazione dell’art. 1, così come dal successivo art. 2, consegua un’elencazione non tassativa della filiera produttiva della canapa che, anzi, è esplicitamente volta a sviluppare filiere territoriali che valorizzino i risultati della ricerca con prodotti innovativi.
Non appare coerente con il dettato normativo, stante il contenuto letterale della L. n. 242/2016, che tale legge preveda limiti alle fasi successive alla coltivazione oppure all’uso di alcune parti della pianta dal momento che tale previsione non si rinviene in alcuna disposizione.
Diverso il caso di specifiche normative di settore che possono invece ben limitare l’utilizzo della canapa ad alcune sue parti (es. la destinazione alimentare al momento risulta limitata all’utilizzo dei soli semi e derivati da seme risultando, da un lato, sussistenti i limiti inerenti al Novel Food e, dall’altro, le limitazioni previste da Decreto Ministeriale per gli integratori alimentari).
Ma tale limitazione non può certamente estendersi tout court genericamente all’intera pianta in difetto di una espressa previsione normativa che, allo stato, non si rinviene.
Le limitazioni portate dal DPR 309/1990 e dalla Convenzione Unica sugli Stupefacenti a parti della pianta quali il fiore e le foglie hanno valenza per l’oggetto da tali fonti disciplinato, ossia le sostanze stupefacenti e quindi alla cannabis-stupefacente, ma non certo possono valere per limitare la canapa-pianta industriale in quanto tali medesime fonti chiariscono la loro non applicabilità alla canapa industriale proveniente da varietà certificate.
Per questa canapa vige la disciplina speciale dettata dalla legge-quadro n. 242/2016 che si pone in un rapporto di eccezione rispetto alla regola generale dettata dal DPR 309/1990.
Ed ecco che, come correttamente rilevato dagli orientamenti maggioritari della giurisprudenza di merito e di legittimità e dalla dottrina a cui il sottoscritto aderisce fermamente, la commercializzazione della canapa sativa in tutte le sue parti rappresenta un presupposto logico-giuridico intrinsecamente connesso ad una legge che promuove una filiera produttiva.
Da questo assunto deriva il delinearsi di un “microsettore normativo autonomo” che dovrà essere normato dalle normative di dettaglio all’interno della cornice delineata dalla legge-quadro.
Un “microsettore normativo autonomo” che in sostanza si traduce soltanto nel considerare la canapa industriale per quello che è: una pianta industriale che niente ha a che vedere con la droga.
Anzi è la legge stessa che ha stabilito il limite-soglia che distingue tra canapa industriale (legale) dalla cannabis stupefacente (illegale) che in Italia si traduce nella soglia dello 0,6% prevista dall’art. 4 della L. n. 242/2016.
Ogni ulteriore valutazione di ordine e salute pubblica risulta superato dal dato normativo.
E’ il legislatore stesso che ha stabilito il limite al di sotto del quale la canapa non è droga in quanto priva di effetti psicotropi.
A riprova di ciò, da anni la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sent. n. 28605/2008) aveva rilevato come valori di THC inferiori allo 0,5% (determinati sulla base della tossicologia forense e della letteratura scientifica) non fossero idonei a produrre effetti psicotropi e, quindi, costituisce condotta inoffensiva non penalmente sanzionabile.
Pertanto la questione è in realtà apparentemente semplice: la pianta di canapa industriale proveniente da varietà certificate e con valori di THC inferiori allo 0,6% NON E’ UNA DROGA.
Viceversa in assenza di uno dei due requisiti risulta applicabile il DPR 309/1990 per coloro che ne facciano commercio o utilizzo, restando esclusa la responsabilità del solo agricoltore ai sensi dell’art. 4 della L. n. 242/2016 che abbia rispettato le prescrizioni di legge.
In tale prospettiva anche la sentenza n. 56737/2018 che risulterebbe ad una prima lettura di orientamento contrario, conferma in realtà la medesima ratio normativa.
Il caso che ha dato origine alla sentenza n. 56737/2018, infatti, riguardava una fattispecie in cui erano stati riscontrati valori di THC superiori allo 0,6% e le infiorescenze in questione non risultavano provenire da varietà certificate.
Ne consegue che, come sopra esposto, in difetto della contestuale presenza dei requisiti (provenienza da varietà certificate e rispetto dei limiti di THC di legge), non si può rientrare nella definizione di canapa industriale e, conseguentemente, risulta applicabile il DPR 309/1990.
In parole semplici le limitazioni previste dal DPR 309/1990 e dalla Convenzione Unica sugli Stupefacenti riguardano sicuramente la pianta cannabis nel suo complesso senza distinzioni tra le varie parti ma per quanto attiene la cannabis-stupefacente e non per la canapa industriale che presenta il carattere di eccezionalità rispetto a tale normativa.
Ne consegue che ogni limitazione prevista in materia di stupefacenti per i fiori, gli estratti, tinture, foglie vale ovviamente per la cannabis stupefacente ma non può essere applicata analogicamente alla canapa industriale in forza del dettato normativo vigente.
Tale impostazione era di fatto già riconosciuta da oltre 20 anni ossia da quando la Commissione Europea alla fine degli anni ’90 aveva autorizzata l’utilizzo del fiore e delle foglie di canapa industriale per la produzione di prodotti alimentari quali birre, tisane ecc.
Non appare comprensibile il motivo, se non per fini propagandistici o politici, per cui tale chiara concezione venga messa in discussione dopo 20 anni proprio nel momento in cui finalmente la filiera della canapa industriale sta trovando una propria dimensione sul mercato globale.
Il quadro sopra tracciato non risulta poi minato o condizionato dalla circolare del Ministero dell’Interno n. 11013/110 avente ad oggetto “commercializzazione di canapa e normativa sugli stupefacenti. Indirizzi operativi” dal momento che, in quanto tale, una circolare è efficace e vincolante solo per la Pubblica Amministrazione cui è destinata e non certamente per il cittadino né, data la propria natura, può vietare o prescrivere alcunchè in deroga alla normativa vigente.
Peraltro il contenuto di tale circolare appare piuttosto parziale in quanto menziona sola parte della giurisprudenza, peraltro minoritaria e addirittura inconferente per quanto attiene al provvedimento del GUP di Macerata, in quanto tale provvedimento è stato successivamente annullato.
Le considerazioni relative alla ratio della normativa sopra esposte non appaiono quindi mutate in forza di tale provvedimento che potrà spiegare i propri riflessi soltanto a livello operativo da parte delle Forze dell’Ordine che sembrano invitate ad adottare provvedimenti restrittivi la cui legittimità sarò poi oggetto di valutazione nelle sedi competenti.
La prospettazione di cui sopra, a parere dello scrivente, non solo è rispettosa della ratiodella normativa vigente, ma appare conforme anche a quella aequitas che deve imprescindibilmente essere ricercata in ogni interpretazione e pronuncia giuridica.
Nella fattispecie ricercare l’aequitas significa anche non cedere a retaggi culturali, pregiudizi immotivati e istanze meramente propagandistiche che vogliono soltanto limitare le potenzialità di una risorsa per non ben chiare finalità.
Dare spazio a tali interpretazioni restrittive significherebbe travisare le disposizioni di legge fondate su meri pregiudizi o su istanze che niente hanno a che fare con il diritto e che sono contrari – appunto – ad ogni aequitas.
La violazione di questa aequitas avrebbe, oltretutto, l’inevitabile conseguenza di comprimere indebitamente valori costituzionalmente garantiti quali la libertà individuale di utilizzare un prodotto agricolo lecito e la libertà di iniziativa economica di coloro che hanno investito nel settore.
I pregiudizi economici per il settore sarebbero enormi sia per coloro che vi hanno investito sia perché farebbero perdere all’Italia una occasione unica per affermare finalmente un “modello italiano” della canapa esportabile in altri Paesi UE.
Ecco che quindi ci appelliamo alle Sezioni Unite che, nell’espressione della funzione nomofilattica, possano rispettare la ratio della normativa e far trionfare l’aequitas.
Avvocato Giacomo Bulleri