Ogni riflessione e conclusione definitiva in merito al travagliato percorso della commercializzazione dei derivati della c.d. cannabis light non potrà che far seguito alla lettura delle motivazioni della pronuncia dello scorso 30 maggio.
Ciò nonostante, il contenuto dell’informazione provvisoria n. 15 si espone necessariamente a una serie di riflessioni sul potenziale impatto della decisione nei confronti delle numerose attività di cannabis shopsorte a valle dell’entrata in vigore della l. 242/2016.
Incominciamo con la lettura della prima parte dell’informativa n. 15: “la commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, infiorescenze, olio, resina derivati dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della Legge n. 242 del 2016 che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte (…) e che elenca tassativamente i derivati della predetta coltivazione che possono essere commercializzati”.
Prima facie, la formulazione presenta subito un aspetto potenzialmente problematico: se da un lato, infatti, le Sezioni Unite escludono in toto la liceità delle attività di commercializzazione degli oli derivati, sotto altro aspetto, tuttavia, l’informativa fa salve le finalità tassativamente elencate dall’art. 2 della l. 242/2016, nell’ambito delle quali, per inciso, viene espressamente consentita la possibilità di “ottenere […] semilavorati, quali […] oli […] per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico” (art. 2, comma 2, lett. b).
Inoltre, e si tratta sicuramente dell’aspetto su cui le motivazioni faranno necessariamente chiarezza, ulteriori dubbi sorgono a valle della lettura del secondo periodo dell’informativa: dopo aver circoscritto il perimetro di applicazione alle sole attività di coltivazione, si legge che “integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4 DPR 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.
Detto altrimenti, a differenza della figura dell’agricoltore, le Sezioni Unite non hanno esteso alla figura del commerciante alcuna soglia di tolleranza sancita dalla l. 242/2016, sicché nei confronti del commerciante di prodotti di canapa trova applicazione la normativa dettata dal D.P.R. 309/1990, secondo la quale nei confronti del gestore di un cannabis shop può configurarsi da un punto di vista oggettivo, la fattispecie di cui all’art. 73 D.P.R. 309/1990, a patto che – e la precisazione riveste un’importanza cruciale – i prodotti abbiano un effetto drogante.
Sennonché, cosa hanno inteso le Sezioni Unite per effetto drogante? In attesa di leggere le motivazioni, siano consentite alcune riflessioni.
In particolare, il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità sembra attestare l’effetto psicotropo in una soglia superiore allo 0,5%, ossia al valore indicato come psicotropo dalla tossicologia forense (e ripreso nella circolare del Ministero dell’Interno del 31 luglio 2018, nel paragrafo c) recante titolo “Le infiorescenze della canapa con tenore superiore allo 0,5% rientrano nella nozione di sostanze stupefacenti”, pp. 7-9).
Ma se così fosse, in attesa di leggere le motivazioni, il contenuto dell’informativa n. 15 potrebbe prestarsi alla seguente lettura, almeno nel breve periodo: la l. 242/2016 si porrebbe come lex specialis del D.P.R. 309/1990 solamente per quanto concerne le attività di coltivazione, mentre le attività di commercializzazione dei derivati rimarrebbero ancora sottoposte alla disciplina generale ex D.P.R. 309/1990 e, pertanto, non rientrerebbero nel microsettore normativo sdoganato dalla l. 242/2016.
Di conseguenza, al pari delle altre sostanze stupefacenti, ai fini di stabilire l’eventuale responsabilità penale del commerciante rileverebbe la sola idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto psicotropo: un’idoneità, come si è detto, che la stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione (e la tossicologia forense) fissa nello 0,5%, ossia in un valore limite solitamente utilizzato nelle valutazioni concernenti il DPR 309/90, ma che non viene mai menzionato all’interno della l. n. 242/2016, la quale fa riferimento ai soli limiti dello 0,2% e/o dello 0,6%.
Ciò posto, sembrano aderire a questa impostazione alcuni arresti della giurisprudenza di merito; in questo senso, una recente pronuncia del Tribunale del Riesame di Genova – la cui conclusione pare essere stato ripresa anche dal Tribunale di Avellino – prende le mosse dal principio sancito dall’informativa emessa n. 15, considerando priva di rilevanza penale “la condotta consistente nella commercializzazione di prodotti contenenti cannabis sativa ma privi, in concreto, di capacità drogante”.
Sennonché, si legge, “resta da delineare, in attesa di un intervento legislativo in materia, a quale parametro quest’ultima debba essere agganciata: cioè in presenza di quale percentuale di principio attivo (THC) debba affermarsi o comunque presumersi che la sostanza sia munita di efficacia psicotropa”.
Pertanto, accogliendo una lettura teleologica dei parametri indicati dalla l. 242/2016, il Tribunale sostiene che la soglia di idoneità drogante non può rinvenirsi nello 0,2%, dal momento che tale valore “riguarda la fruibilità degli aiuti comunitari”; del pari, nessun pregio può assumere il parametro dello 0,6%, il quale “fa riferimento a un margine di errore nella semina di piante autorizzate che comporta la revoca del finanziamento comunitario ma esclude l’applicabilità della sanzione penale”.
Ergo, secondo i giudici liguri, non resta che applicare – al fine di determinare la soglia dell’idoneità drogante – il valore dello 0,5%. Tale soglia, si legge, “è un limite indicato dall’Autorità amministrativa con disposizione subregolamentare […] si tratta della circolare emessa dal Ministero dell’Interno in data 31/7/2018, interpretativa della legge 242/2016 con cui è stata dichiarata la liceità della coltivazione della “cannabis sativa L”; vi si afferma che le infiorescenze di canapa con concentrazione superiore allo 0.5% rientrano tra le sostanze stupefacenti, pur dovendosi dare atto che, in mancanza di parametri normativi per determinare la soglia drogante, il Ministero dell’interno sembra averla determinata sulla base di un parere tossicologico e di articoli di dottrina”.
Di conseguenza, in attesa di leggere le motivazioni delle Sezioni Unite, non resta che prendere atto che la soglia dello 0.5% sembrerebbe ad oggi essere “l’unico parametro cui commisurare […] la potenziale efficacia psicotropa dei prodotti derivati dalla coltivazione di quel vegetale”.
Avvocato Mattia Miglio