La canapa è un’alleata preziosa nelle sfide ambientali che l’umanità di trova davanti. Non solo perché può essere fondamentale nel cambio di paradigma dall’uso sfrenato di derivati del petrolio, come ad esempio la plastica, o per l’enorme riduzione che potrebbe portare ai livelli di CO2 che immettiamo nell’atmosfera o per ridurre la deforestazione: può essere la chiave per aiutarci a ripulire letteralmente il pianeta tramite la fitorimediazione.
La pianta dai mille usi infatti, come raccontato in un capitolo dedicato del libro “Cannabis. Il futuro è verde canapa“, ha delle spiccate doti che le permettono cioè di togliere dal terreno inquinanti e metalli pesanti come cadmio e diossina, per stoccarle al proprio interno.
“Uno dei primi esempi moderni nell’utilizzo di piante per ripulire terreni contaminati è stato avviato in America agli inizi degli anni ’90″, racconta Mario Catania a proposito di fitorimediazione nel libro pubblicato da Diarkos. “E l’ennesimo paradosso che coinvolge questa pianta vuole che sia un esperimento tentato proprio dall’azienda DuPont, più volte messa in relazione al proibizionismo nei confronti di questa pianta. Era l’8 settembre del 1992 quando la giornalista Emily Bernstein scrisse sul New York Times il pezzo titolato “Scientist using plants to clean up metals in contaminated soil”, dando conto del fatto che il dottor Scott Cunningham, ricercatore per la DuPont, iniziò ad utilizzare canapa e ambrosia per ripulire la zona accanto al fiume Delaware dove la compagnia produceva più di 750 sostanze chimiche”.
“Nello stesso periodo a Chernobyl”, si legge, “a pochi anni dal disastro nucleare, la canapa venne utilizzata nel tentativo di ripulire i terreni contaminati dai metalli pesanti. Ilya Raskin, una scienziata membro del team, coniò il termine fitorimediazione, mentre Vyacheslav Dushenkov, altro membro del team di ricercatori della società Phytotec, spiegò che: “La canapa si sta dimostrando come una delle migliori piante fitorimediative che siamo stati in grado di trovare”.
Stando sempre a ciò che viene spiegato nel libro: “La ricerca è proseguita e nel 2002 un gruppo di ricercatori dell’Università di Wuppertal e del Faserinstitut di Brema pubblicarono uno studio in cui si può leggere che, dopo aver esaminato i semi, le foglie, la fibra e il canapulo, la più alta concentrazione di metalli pesanti si trovava nelle foglie. “La qualità complessiva della fibra di canapa non è stata influenzata dalla contaminazione da metalli pesanti”, ma non è adatta al consumo umano ed è “più adatta per scopi industriali o per la produzione di energia”.
Nel 2014 invece “è stata la volta di un gruppo di ricercatori indiani, che hanno analizzato tre specie di piante selvatiche, tra le quali la canapa, per verificarne le potenzialità. “La tecnica di phytoremediation fornisce uno strumento promettente per l’iperaccumulo di metalli pesanti; arsenico, piombo, mercurio, rame, cromo e nichel, ecc.”.
Anche in Italia abbiamo alcuni esempi di questo tipo. A partire dalla sperimentazione fatta presso la masseria Fornaro, che sorge vicino all’ex Ilva e che si vide abbattere tutti gli animali a causa degli elevati livelli di diossina presenti, o in Sardegna, dove nel 2017 è stato finanziato un progetto per studiare la fitorimediazione della canapa.
Oggi ne sta nascendo un altro, a cura dell’ABAP (Associazione Biologi Ambientalisti Pugliesi), che, dopo aver vinto un bando apposito, si stanno preparando ad effettuare lo studio in Puglia utilizzando diverse varietà di canapa. E’ il progetto GREEN (Generare Risorse Ed Economie Nuove).
“Il progetto fra parte di un filone di ricerca promosso dalla regione Puglia e noi siamo tra i vincitori”, sottolinea Marcello Colao, biologo dell’associazione spiegando che: “è finalizzato a studiare l’impiego della cannabis per fare degli studi sperimentali. Noi metteremo a confronto alcune varietà presenti nel catalogo europeo per vedere come si comportano dal punto di vista dell’accumulo dei metalli pesanti nella fitorimediazione. In base a questo stileremo una lista con le varietà più performanti e quale funziona meglio tra quelle disponibili”.
Si prevedono poi alcuni incontri pubblici per diffondere i risultati ottenuti. Il progetto vero e proprio inizierà a marzo con la semina in campo vicino all’aeroporto di Bari. “L’idea è quella di coltivare un ettaro che sarà diviso in due zone: una sarà coltivata a filari con le diverse varietà e l’altra a piccole aree di coltivazione, per capire le diverse modalità di reazione della pianta”.
Altro passaggio sarà quello di cercare di capire come e dove la pianta stocchi le sostanze inquinanti tolte dal terreno. “E’ un tassello importante, anche perché finalmente la ricerca indipendente viene finanziata dal pubblico e mi sento di dire che la Regione si è dimostrata coraggiosa”.
Uno degli output sarà una pubblicazione scientifica, che sarà poi messa a disposizione del pubblico e degli esperti. “L’idea è quella di analizzare anche i possibili impieghi, per chiudere il cerchio. Si stima che la maggior parte dei metalli pesanti vengano stoccati nella parte radicale e nelle foglie. Se dovesse essere confermato dalla ricerca la parte dello stelo potrà essere utilizzata, ad esempio per la bioedilizia e infatti partecipa al progetto anche un’azienda di settore”.
“La canapa”, conclude Marcello Colao, “deve essere inserita tra le strategie per affrontare i cambiamenti climatici, promuovere lo sviluppo sostenibile e l’economia circolare, in cui rientra tranquillamente innescando dei principi virtuosi come il sequestro della CO2 alla base di diversi processi agro-industriali che la coinvolgono”.
Redazione di canapaindustriale.it