Il CBD Full Spectrum può rientrare nella lista europea dei novel food? Per rispondere a questa domanda la European Industrial Hemp Association (EIHA), l’unica organizzazione paneuropea nel settore della canapa industriale, ha dato vita al più grande trial scientifico sui prodotti contenti CBD naturally/plant derived e THC coinvolgendo 200 persone e finanziandolo con 1,6 milioni di euro. E’ il più grande studio di questo tipo che sia mai stato realizzato.
Il CBD Full Spectrum, o CBD a spettro completo, è un elemento che non contiene solo il cannabidiolo, ma anche altri composti presenti in natura all’interno della pianta. Tra questi i terpeni, molecole aromatiche presenti anche nell’olio d’oliva, i flavonoidi, molecole vegetali che si possono trovare anche nel tè verde o nei mirtilli, e altre componenti come THC e CBG e le forme acide dei cannabinoidi CBDA e THCA.
Al momento, per il CBD Full Spectrum non esistono vere e proprie regolamentazioni, complice anche la scarsissima letteratura scientifica a supporto di eventuali normative, e questo si traduce in un limite sotto diversi punti di vista, tra i quali quello economico. È anche per risolvere questa situazione che nasce il nuovo trial scientifico promosso dalla European Industrial Hemp Association (EIHA).
Dopo aver presentato le domande Novel Food per l’isolato naturale di CBD e CBD Full Spectrum alla UK’s Food Standards Agency (FSA), l’ente regolatore della Gran Bretagna, infatti, la European Industrial Hemp Association(EIHA) ha compiuto un ulteriore passo in avanti e ha lanciato il più grande trial scientifico sugli esseri umani per studiare e valutare gli effetti tossicologici delle possibili tracce di THC all’interno degli alimenti a base di CBD Full Spectrum e nel FOOD (dry e oil from hemp seeds).
Lo studio, nato con un investimento di 1,6 milioni di euro, coinvolgerà 200 partecipanti per un periodo di 30 giorni nel tentativo di dimostrare all’Unione Europa che le tracce di THC rilevate, come ipotizzato, sono sicure per l’essere umano: un risultato, questo, che potrebbe portare all’approvazione del CBD Full Spectrum e a evitare in futuro numerose RASFF alert innescate da valori errati e inutilmente severe. I primi risultati sono ora attesi per l’estate 2021.
CBD Full Spectrum: l’intervista a Lorenza Romanese, Managing director di EIHA
Intanto per saperne di più sullo studio e sui risvolti che questo potrebbe avere a livello industriale e alimentare abbiamo intervistato Lorenza Romanese, Managing director di EIHA.
Quando si parla di CBD Full Spectrum si parla di un alimento che contiene in sé diverse componenti naturali. Tra queste c’è anche il THC, che non può superare le quantità e le percentuali autorizzate dalle normative vigenti. Quali sono, attualmente, questi valori?
Attualmente il valore suggerito dall’Unione Europea per il THC negli alimenti è pari a 1 microgrammo per chilo corporeo (1 μg/kg body weight), ma è un valore eccessivamente basso e che non si basa su studi concreti. Inoltre si tratta di linee guida imposte dall’Unione, non sono veri e propri regolamenti. In Svizzera, per esempio, si parla di 7 microgram, così come in Australia e Nuova Zelanda, mentre il Canada ne autorizza addirittura 10 e gli Stati Uniti 13. Con questo studio noi vogliamo raggiungere i livelli della Svizzera e l’obiettivo è che l’apparato regolatore europeo adotti la nostra scienza traducendola in regolamenti idonei e competitivi. Oggi le normative, infatti, non si basano su studi attendibili e c’è bisogno di un cambiamento.
Quali sono, secondo lei, i limiti e i problemi principali legati a queste normative?
Oggi, in Europa, non ci sono regole condivise, ma solo delle linee guida proposte dall’EFSA, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare che risalgono al 2015 per il THC in food (food supplement). Uno dei problemi principali è che a queste linee guida si è arrivati attraverso un risk assessment basato esclusivamente sulla letteratura, senza uno studio dedicato, e, soprattutto, su documenti relativi a due ricerche che hanno coinvolto due campioni che non possono essere considerati rappresentativi. La prima era stata condotta nel 1993 e aveva coinvolto 31 pazienti affetti da HIV, la seconda risale al 2011 ed è lo studio Ballard, condotto su solo 11 consumers. La combinazione di questi due studi ha portato ad avere un ARfD (l’indicatore del rischio di tossicità) per il THC pari a 1 microgram, ma non è corretto. A questo si aggiungono poi anche i problemi di calcolo dell’ARfD.
E quali sono queste problematiche legate al calcolo?
Sono principalmente due. La prima è relativa al calcolo della “maximum daily intake”, ossia la dose massima che l’individuo può assumere di una certa sostanza senza effetti indesiderati. In questo caso, per identificarla, si tiene conto di due valori: il NOAEL (No Observed Adverse Effect Level) e il LOAEL (Low Observed Adverse Effect Level). Per il THC, però, l’EFSA ha tenuto conto solo del LOAEL, quindi sulla carta è normale avere risultati e livelli più elevati di rischio rispetto a qualsiasi altra sostanza; si parte svantaggiati ed è per questo che uno dei nostri obiettivi è calcolare finalmente il NOAEL del THC.
La seconda è una diretta conseguenza della prima. Una volta calcolato il NOAEL, infatti, bisogna ricordare che non è il valore che poi viene autorizzato per il consumatore, ma questo è solo la base di partenza per un nuovo calcolo che coinvolge l’Uncertainty Factor, un fattore di incertezza. Per la nicotina, per esempio, l’UF è di 4.4, per la codeina è 5, per alcol e caffeina è 0, ma quando parliamo di THC è 36, un valore spropositato. Per il corpo è meglio mangiare un po’ di THC attraverso la farina o assumere un valore 10 volte più elevato di codeina, che è un oppiaceo analgesico? È per fare luce su questo che dobbiamo investire un milione e duecentomila euro.
A livello economico, perché questo studio è così importante per l’intero settore della canapa?
Come dicevo, i livelli concessi in altri paesi sono più elevati e questo non ci permette di competere a livello economico con il resto del mondo e del mercato. Quando si parla di CBD Full Spectrum si parla soprattutto del settore food, del seme della pianta dal quale derivano oli, farine e snack, solo per citarne alcuni. Questo studio aiuterebbe da una parte ad ampliare la proposta e il mercato e dall’altra a proporre un prodotto meno trattato e più naturale, più sano quindi per il consumatore finale.
Martina Sgorlon